Nella puntata 16 dedicata a Serie TV e giornalismo avevo accennato ad un altro tema strettamente collegato: giustizia e media, che nel corso del tempo ha sempre preso più piede tanto quasi da non farci più caso (o meglio dare per scontato che certe questioni vengano dibattute in ogni trasmissione).
Caso vuole che 11 maggio sia uscita su Netflix una docuserie dal titolo Trial by Media.
Nel panorama mediatico odierno – si legge nel comunicato stampa - nel quale i drammi veri che si svolgono nei tribunali si trasformano in una forma di intrattenimento, “Processi mediatici” riflette su alcuni dei casi più drammatici e memorabili della storia recente.
La copertura televisiva ha introdotto nel sistema giudiziario una nuova enfasi sulla narrazione creativa e sulla spettacolarità, cambiando per sempre l'ambiente dei tribunali. In sei avvincenti episodi, “Processi mediatici” analizza il contributo della stampa a plasmare la percezione, da parte della colpevolezza o dell'innocenza prima, durante e dopo il processo.
Tra i produttori esecutivi George Clooney, il giornalista, sceneggiatore e fondatore di Court TV Steven Brill e l'avvocato e scrittore Jeffrey Toobin.
Quest’ultimo autore del libro “The Run of His Life: The People v. O.J. Simpson” da cui è tratta la prima stagione della serie antologica American Crime Story (e tema di questa puntata) disponibile su Netflix.
Nonostante sia del 2016 e narra fatti del 1994/95 la ritengo molto interessante proprio per alcuni aspetti che ho citato sopra.
Per quanti non l’hanno vissuta “live” in quegli anni, racconto cos’è accaduto (sintetizzo ovvio, perché più avanti ho un paio di suggerimenti da darvi).
Il 13 giugno 1994 vengono ritrovati con numerose ferite inferte i corpi senza vita di Nicole Brown e Ronald Goldman.
Nicole è l’ex moglie del campione di football e attore O.J. Simpson che in quel momento di trova a Chicago (era partito la sera prima) e che risulta da subito tra i sospettati e qui parte la vicenda che avrà una copertura mediatica senza precedenti e di cui appunto parla American Crime Story.
Ad esempio la fuga di Simpson – tema della seconda puntata - avvenuta il 17 giugno.
All’insaputa dei suoi stessi avvocati, scappa insieme a Al Cowlings, ex compagno di squadra su una Ford Bronco bianca (stesso modello di quella di O.J. Simpson in cui erano state trovate tracce di sangue).
L’auto è intercettata dalla polizia, ma riesce a proseguire la sua corsa, perché si vuole evitare che l’ex campione - in preda al panico e con una pistola in mano - si suicidi (anche per una nota un po’ sibillina letta dal suo avvocato alla stampa). La fuga è ripresa in diretta TV e seguita da circa 75 milioni di telespettatori. Arrivando addirittura ad interrompere una importante partita di basket - mai successo in 24 anni…per non parlare dell’incitamento dei cittadini “Go Juice Go!
Da qui è un crescendo e anche la scelta di trasmettere il dibattito in aula ha avuto un ruolo centrale.
Il processo inizia il 24 gennaio 1995 - centinaia di giornalisti impegnati e ore di trasmissioni live - per concludersi con l’assoluzione dell’imputato il 3 ottobre (i giurati si sono espressi dopo sole 4 ore).
L’accusa è convinta della colpevolezza di O.J. Simpson e di riuscire a dimostrarlo dalle prove schiaccianti, ma non ha fatto i conti con gli avvocati della difesa e sulla fama di O.J..
Il pubblico ministero è una donna, Marcia Clark, una delle migliori - tutti i processi che ha seguito, hanno portato alla condanna dell’imputato - ma inizia ad essere attaccata per come si veste, per l’acconciatura (sì come è successo di recente ad una giornalista italiana), vengono pubblicate foto in topless per screditarla mentre l’ex marito chiede la custodia dei figli…tutto descritto molto bene nella serie.
Dall’altra parte il dream team come viene definita la squadra di legali difensori che punta sulla questione razziale e la presenza di Johnnie Cochran (avvocato coinvolto spesso in cause sui diritti civili) ha sicuramente aiutato, poi c’è l’avvocato dei vip Robert Shapiro, Robert Kardashian che riattiva la licenza per aiutare l’amico O.J. e da consulente esterno (vedeva le dirette) Alan Dershowitz, nome davvero di punta e professore ad Harvard a soli 28 anni.
Nonostante si tratti di un adattamento di un libro su un caso realmente accaduto, la serie risulta interessante proprio per la descrizione di queste dinamiche, come la visita da parte della giuria nella casa di O.J. – proposta dalla difesa – sistemata ad hoc per farlo risultare più coinvolto con la comunità afroamericana o la stessa copertina del Time che ne ha scurito il volto.
Mentre stavo preparando questa puntata – recuperando anche del materiale già scritto – ho avuto modo di vedere un documentario di più di 7 ore O.J.: Made in America (disponibile ora su Disney+) premiato con un Oscar nel 2017.
Racconta come la storia di O.J. Simpson, che non ha mai voluto dare importanza o peso al colore della pelle, si intersechi con la storia di violenza e discriminazione dei neri a Los Angeles e non solo.
Il regista Ezra Edelman ha spiegato di non essere interessato alla domanda "È stato lui?" quanto piuttosto alla questione più ampia di come O.J. sia diventato un simbolo di così tante cose come la razza, la classe sociale, la celebrità, i media, la violenza domestica e altro. Come ha potuto O.J. Simpson – che una volta era amato da milioni di americani, sia neri che bianchi – diventare figura divisiva nel nostro paese?
Secondo Danny Bakewell – attivista ed imprenditore - l’assoluzione di O.J. è stata un payback (parola che viene spesso citata) rimborso per quello che è successo nel corso degli ultimi quattrocento anni. "È stata un rimborso per come i neri sono trattati in America. Questo era nella mente di ogni nero in America."
Come si esce da un’esposizione mediatica così forte? Sicuramente meglio per chi ha vinto, con carriere ulteriormente decollate, molti soldi in più e fama, anche per famiglia (vedi Kim Kardashian ecc.)
Un po’ meno per O.J. Simpson che ha perso poi la causa civile portata avanti dalla famiglia Goldman e da lì è stato tutto un percorso verso il basso fino all’arresto per rapina a mano armata e sequestro di persona nel 2008 (non c’è nella serie).
Ne è uscita sicuramente provata Marcia Clark che ha lasciato l’incarico di pubblico ministero, ha scritto un’autobiografia “Without a Doubt”. Ha avviato una carriera di scrittrice di legal drama, autrice di una serie TV ispirata alle sua figura (si intitola The Fix ed è andata in onda su canale 5 lo scorso anno) ed è commentatrice ed inviata (sempre legate a leggi e processi), si vede anche nel documentario O.J.: Made in America.
Anche per l’altro avvocato dell’accusa Christopher Darden questo processo portò alle dimissioni anche se ha proseguito nell’ambito, specializzandosi (e diventando professore associato), aprendo un suo studio e diventando un commentatore televisivo.
Di libri sull’argomento ce ne sono diversi, di – quasi - tutti gli attori protagonisti del processo del secolo, anche uno di O.J. dal titolo “If I Did It: Confessions of the Killer” in cui c’è un capitolo che parla dell’omicidio anche se comunque l’ex campione non ha mai confessato di averli uccisi (se si escludono alcune parziali confessioni al suo ex agente “se non avesse aperto la porta con un coltello tra le mani, sarebbe ancora viva).
Coltello mai trovato, nonostante al notizia di qualche anno fa, risultata poi infondata.
Ma non si tratta solo di questo caso, quello del secolo, perché a guardare quello che accade oggi anche in Italia c’è la sensazione che il diritto di essere informati e il dovere di informare trascendano verso una morbosità e attacchi più o meno diretti alle persone coinvolte, anche su questioni che non riguardano direttamente il caso (sono certa vi venga in mente qualche esempio nostrano).
Credo che Il caso O.J. Simpson - questo il titolo della serie in italiano - offra molti spunti di riflessione con un cast di tutto rispetto e credibile nei ruoli: Cuba Gooding Jr, Courtney Bernard Vance, Sarah Paulson, Sterling K Brown, poi abbiamo David Schwimmer e John Travolta (uno dei pochi ad aver ricevuto critiche negative sulla sua interpretazione definita da un giornalista di Vanity Fair terribile)
American Crime Story – come dicevo in apertura è una serie antologica (un soggetto per ogni stagione) che si prefigge di raccontare famosi casi giudiziari e di cronaca che hanno avuto un forte impatto mediatico. Dopo il caso O.J. Simpson, nel 2018 The Assassination of Gianni Versace (entrambi disponibili su Netflix**) e il 27 settembre uscirà Impeachment*, che racconta la vicenda Clinton/Lewinsky tratta anche in questo caso da un libro di Toobin (avremo modo di parlarne)
Quello sull’uragano Katrina – il quarto capitolo della serie - invece non verrà realizzato.
Quindi ricapitolando:
sul tema – oltre alla serie protagonista di questa puntata – consiglio la visione di: O.J.: Made in America, The Fix e visto che l’ho citata all’inizio Processi Mediatici .
In particolare il primo episodio che parla delle conseguenze di una trasmissione trash e il quinto con un caso di stupro dell’83. Esordisce proprio con una riflessione/dubbio sul trasmettere i processi. Se tale risonanza sia un bene o un male, secondo alcuni critici non farebbe che portare a un diffuso voyerismo…è come guardare una soap opera dice qualcuno…termine usato anche per il caso O.J.
*c'è stato uno slittamento di un anno rispetto a quanto descritto nella puntata, American Crime Story: Impeachment è in onda in Italia su Fox dal 19 ottobre 2021
**ora si trovano su Disney+
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