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True legacy

  • Immagine del redattore: Laura Invernizzi
    Laura Invernizzi
  • 23 lug
  • Tempo di lettura: 7 min

Per quest’ultima puntata de Il divano chiama torno indietro nel tempo, ovvero al tema della prima puntata di Quando arrivano gli Inglesi?. Era il 28 settembre 2014, e io, ai microfoni di Radio Magenta, parlavo per la prima volta di una serie americana che sarebbe arrivata in Italia su Sky Atlantic di lì a pochi giorni: True Detective (negli Stati Uniti uscì il 12 gennaio).

Undici anni dopo e centinaia di serie viste, chiudo un po’ il cerchio tornando a parlarne, perché questa serie non è solo una delle più discusse degli ultimi anni, ma anche una delle più influenti.

 

Curiosità: in quell’occasione, per raccontare uno dei protagonisti - Rust Cohle – interpretato da Matthew McConaughey, coniai per la prima volta l’espressione “detective stropicciato”, un termine a cui mi sono molto affezionata e che ho usato spesso anche qui.

 

True Detective è una serie antologica, giunta al quarto capitolo (anche se in inglese si definisce comunque stagione) - Night Country - lanciato da HBO il 12 gennaio 2024 (secondo me non a caso) con protagonista Jodie Foster.

Questo ha riportato l’attenzione su tutta la saga, spingendo molti a rivederla dall’inizio o a scoprirla per la prima volta. Quindi sì, molti potrebbero pensare che sia un argomento trito e ritrito, ma secondo me non è così.

Non voglio parlare tanto della trama ma soffermarmi su qualcosa che mi sembra ancora più interessante: quanto True Detective abbia influenzato, cambiato, persino alzato l’asticella della serialità che troviamo ora sulle piattaforme streaming (Netflix arrivò nel 2015 in Italia – lo ricordo spesso – rivoluzionando il mercato televisivo, l’interesse sulle serie TV e il nostro modo di concepire la visione introducendo il binge watching senza pubblicità e con la possibilità di disdire un abbonamento con estrema facilità).

 

Parto dagli Opening Title, che nella mia trasmissione radiofonica avevano un peso importante perché li facevo anche ascoltare - non era solo un vezzo da appassionata, ma un modo per raccontare il tono, lo stile e persino la poetica di una serie. E True Detective da questo punto di vista è stato un colpo di fulmine.

L’ho detto anche nella puntata 57 intitolata “Sigla”, e lo ripeto volentieri: Fin dalle prime immagini dei titoli di testa, ho capito di essere di fronte a una serie diversa da quelle a cui ero abituata, grazie alle immagini evocative ed inquietanti che si susseguivano – o meglio, si sovrapponevano – sullo schermo. Ad accentuare il tutto, il brano Far From Any Road di una banda poco conosciuta – The Handsome Family.”


Quei titoli di testa non erano solo belli da vedere, ma profondamente narrativi ed inquietanti: corpi e paesaggi fusi insieme, il tutto accompagnato da una musica che sembrava arrivare da un luogo sospeso.

A firmarli fu Patrick Clair e il suo studio Elastic enfatizzando il paesaggio industriale della Louisiana meridionale, utilizzando fotografie modificate digitalmente e tecniche 3D per creare un'atmosfera surreale. Questo lavoro incredibile (la ‘sigla’ dura ben 90 secondi) fu premiato con un Emmy nella categoria Outstanding Main Title Design.


Da lì in avanti, molte produzioni hanno iniziato a curare di più i propri opening. Hanno capito che quei pochi secondi possono fare la differenza nel fissare un tono, un’identità. E anche se oggi c’è chi clicca “skip intro” (non ovunque in realtà), True Detective ci ha insegnato che a volte saltare la sigla è come saltare un prologo scritto benissimo. In campo narrativo ha imposto un uso più sofisticato delle musiche: non “colonna sonora”, ma vero e proprio strumento che, come la fotografia o il montaggio, racconta un’atmosfera e/o uno stato d’animo. Ne ho parlato anche in occasione della puntata su Lupin.


Ma veniamo al cuore della questione: cosa ha lasciato in eredità True Detective?


Proseguo con quello che mi ha colpita maggiormente.

Parliamo spesso di “narrazione non lineare”, ma True Detective è un esempio emblematico.


Come ricordavo anche nella prima puntata di Quando arrivano gli Inglesi?, la serie si apre con una scena notturna in un campo che brucia, seguita dalla comparsa della scritta REC, come se stessimo guardando un interrogatorio filmato. Ci troviamo nel 2012, e vediamo Marty Hart ("Woody" Harrelson) – giacca e cravatta – che racconta del suo ex partner Rust Cohle: “Beh, così come non si scelgono i genitori, non si scelgono i partner… Sapevate che per un po' l’hanno chiamato l’Esattore? Era un tipo sciupato, un po' nervoso… era capace di litigare col cielo se non gli piaceva il colore”.

E poco dopo, eccolo, Rust: capello lungo, rughe profonde, barba trasandata, sigaretta sempre accesa e birra in mano, seduto allo stesso tavolo, che risponde con indifferenza e sarcasmo. Quello che sembrava un semplice interrogatorio si trasforma subito in qualcosa di più profondo, più ambiguo. La scena cambia di nuovo e ci riporta nel 1995, quando i due detective vengono chiamati su un luogo del delitto: una donna trovata morta, nuda, inginocchiata, con simboli rituali e strani oggetti attorno al corpo. I protagonisti sono gli stessi, ma più giovani, più dinamici, meno logori. Cosa è successo in quei diciassette anni? Cosa nascondono davvero le loro parole?


Questa tecnica narrativa ha ispirato molte serie degli anni successivi, che hanno adottato espedienti simili per approfondire il rapporto tra identità, memoria e verità.

Tra queste ne cito una di cui mi sono occupata anche qui: The Sinner (disponibile su Netflix): ogni stagione utilizza un presente investigativo che si intreccia con un passato traumatico, rivelato a poco a poco, spesso in modo contraddittorio. I flashback non servono solo a spiegare, ma a complicare la narrazione e a mettere in dubbio ciò che lo spettatore credeva di sapere.


Altro elemento, sottolineato anche da Tommy Lethbridge nel suo articolo "True Detective ha cambiato completamente la TV dieci anni fa" su Screenrat, è quanto la serie “abbia elevato la TV al rango di cinema, con il suo approccio cinematografico allo stile, alla narrazione e al ritmo, facendola sembrare più un lungo film che una tipica serie poliziesca”.

Sicuramente avere un’unica regia per tutta una stagione -  Cary Joji Fukunaga - che ha girato tutti gli otto gli episodi ha sicuramente dato una visione uniforme e precisa (pare anche in contrapposizione con lo showrunner Nic Pizzolatto).

 

E a proposito del creatore di True Detective, impossibile non citare i riferimenti filosofici disseminati nella serie e spesso ripresi nei celebri monologhi di Rust Cohle. Quelle frasi che oggi sono diventate quasi iconiche come “Il tempo è un cerchio piatto”, non sono semplici trovate autoriali, ma attingono dalle letture ed approfondimenti di Pizzolatto (Schopenhauer, Nietzsche, Ligotti, Cioran, solo per citarne qualcuno). Se volete approfondire vi consiglio le pagine dedicate alla serie ne Il primo dizionario delle serie Tv (gratis con Kindle unlimited).

 

Parlando di cast, McConaughey e Harrelson sono stati pionieri in un momento in cui i grandi nomi del cinema facevano ancora fatica ad accettare ruoli televisivi, lo sottolinea anche Screenrat.


Dopo di loro, la presenza di star hollywoodiane in tv è diventata la norma. Anche questo ha contribuito a ridurre il confine (ormai quasi inesistente) tra piccolo e grande schermo.

McConaughey – che all’inizio doveva interpretare Marty, ma poi convince lo showrunner e i produttori a vestire i panni di Rust elaborando un testo di 450 pagine – ha detto che True Detective è stata "la migliore campagna pubblicitaria per gli Oscar" per Dallas Buyers Club (anche se i riconoscimenti ci sono stati ben prima dell’uscita della serie).

 

HBOwatch.com in un recente articolo ha scritto che “la magia della prima stagione di True Detective non risiedeva solo nella sua trama intricata o nell'atmosfera gotica del sud, ma anche nell'elettrizzante dinamica tra i suoi protagonisti. Gli attori hanno portato decenni di amicizia nella vita reale nei loro ruoli, creando un sodalizio sullo schermo che sembrava vissuto e autentico. Gli scontri filosofici e le tensioni personali dei loro personaggi hanno guidato la narrazione tanto quanto il mistero centrale.

 

Si parla spesso infatti di come il rapporto tra Rust e Marty abbia ridefinito l’immagine della “coppia investigativa”. La loro dinamica ha evitato i cliché del rapporto amico-poliziotto, privilegiando un rapporto più complesso, spesso antagonistico, che si è evoluto nel corso della storia.

 

Ma non è solo nel rapporto tra i personaggi che la serie ha introdotto una rottura, ma anche nella sua struttura produttiva ha segnato un cambiamento importante.

Il formato antologico, che oggi ci sembra familiare, nel 2014 non lo era affatto.

True Detective ha rilanciato questa formula con forza, dimostrando che si potevano raccontare storie autoconclusive in una sola stagione, con una libertà creativa rara e un cast di altissimo livello. E non è stato solo un esperimento riuscito: è diventato un punto di svolta.


Possiamo dire che True Detective non è stata semplicemente una grande serie: ha definito nuovi standard — visivi, narrativi e tematici. Come dicevo in apertura ha alzato l’asticella per tutto quello che sarebbe venuto dopo.


Certo, i capitoli successivi non hanno avuto lo stesso impatto: il secondo e il terzo, pur con Nic Pizzolatto ancora al timone, hanno faticato a replicare la magia del primo — impresa difficile, quasi impossibile, per chiunque. Ma il quarto capitolo, uscito lo scorso anno con Issa López come showrunner, sceneggiatrice e regista, ha segnato un vero ritorno alla qualità, ottenendo consensi critici tra i più alti dai tempi della prima stagione.

Il creatore della serie non l’ha apprezzata, ma ci sta.

Però ha altri progetti in mente.

Mentre True Detective è stata rinnovata per la quinta volta, Pizzolatto e McConaughey secondo Deadline, pare siano al lavoro su un film dedicato a Mike Hammer, l’iconico detective creato da Mickey Spillane.


E questo podcast? Per ora si prende una pausa, la passione per le serie TV resta ancora alta e anche il mio impegno per realizzare buone puntate, ma ammetto che gli ascolti sono decisamente più bassi rispetto ad un anno fa.

È anche vero che non faccio promozione e che il mondo dei podcast si è evoluto, è diventato altro. Quindi, un po’ di vacanza può aiutarmi a capire se, come e in che direzione andare avanti.

 

Grazie a chi mi ha ascoltata fin qui, anche solo per una puntata.

Grazie a chi ha scritto, consigliato, condiviso, ma anche chi mi supporta silenziosamente!

 

Ci sentiamo, magari. Più avanti. Oppure in un’altra forma. Ma con lo stesso entusiasmo.

 
 
 

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