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vita spericolata di benvenuto cellini

Immagine del redattore: Wilma ViganòWilma Viganò

Altro che Steve McQueen!

Se non ci fosse stata di mezzo la metrica, Vasco avrebbe scritto “… voglio una vita come Benvenuto Cellini”.

Vita scellerata, spericolata, folle, controversa, insofferente, scapestrata quella del genio fiorentino. Una vita in fuga da tutto e da tutti, con il diavolo in corpo e il prurito nelle mani. Sì, perché Cellini non fu semplicemente un orafo, come viene oggi superficialmente classificato, ma un artista maledetto a tutto tondo, che debuttò come musico (vedi Vasco), per poi trasformarsi in scultore, orafo, artigliere, mazziere pontificio, direttore di zecca, ingegnere di fortificazioni, giramondo, esperto di negromanzia, scrittore… e sto senz’altro dimenticando qualcosa. E in tutto eccelse, vera personificazione dello spirito rinascimentale del suo tempo. Anche se, di tutto quel genio, ci restano solo tre opere: la saliera di Francesco I di Valois, re di Francia, il Perseo con la testa di Medusa realizzato per Cosimo I dei Medici e quel capolavoro letterario che è la sua autobiografia. Pomposamente titolata “Vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze” ma conosciuta dagli storiografi di tutti i tempi semplicemente come “Vita”, questo testo è a tutt’oggi considerato un capolavoro di narrativa per la spontaneità, la vivacità e le invenzioni linguistiche, oltreché per l’abbondanza di preziose testimonianze e aneddoti del tempo. Persino il Vasari, che ha avuto da dire su tutto e su tutti, nei suoi scritti fece solo cenno alla vita e alle opere di Cellini poiché, come ebbe a dire "egli stesso ha scritto la vita e l'opere sue". Senza però esimersi dallo schizzare un ritratto sul carattere dell’artista che leggeva “Era in tutte le cose animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo”. Che può anche essere decodificato come “Grande artista, ma meglio starci alla larga”.

In ogni caso, al di là del suo valore letterario, Benvenuto Cellini è da tutti riconosciuto come il più grande orafo di tutti i tempi. Ma per che cosa? Per quali mirabolanti gioielli? Per quali fini incisioni? Per quali fantasiose lavorazioni? Niente di tutto ciò. Benvenuto Cellini è passato alla storia per una saliera! Passo naturalmente a contestualizzare. Il sale ha da sempre valenze sacre. Come scriveva nel 1531 il medico e alchimista Paracelso, assieme allo zolfo e al mercurio è uno dei princìpi che compongono il corpo fisico. È contenuto nelle lacrime, nel sudore e nel liquido interstiziale che nutre le nostre cellule, ed è quindi considerato elemento sacro, incorruttibile e puro. Da qui il fatto che nel ‘500 le saliere, deputate a custodire cotanto valore, fossero considerate dei veri status symbol da esibire al centro delle tavole più altolocate.

Ma torniamo al nostro eroe.

Fiorentino verace, Benvenuto venne al mondo la notte tra il giorno dei santi e quello dei morti del 1500, e forse anche questo è un presagio astrale. Il padre era ingegnere e liutaio, ma anche musico (anzi “piffero” come venivano allora definiti i musicanti) alla corte dei Medici ed avendo adocchiato immediatamente uno dei tanti talenti innati del figlio, cioè la capacità di leggere la musica a prima vista e di suonare pezzi polifonici complessi, cercò di avviarlo alla carriera musicale sperando di passargli un giorno l’incarico a palazzo. Ma il ragazzo scalpitava, prediligeva la scultura e, ancora giovanissimo, scappò a Pisa per un anno per frequentare la bottega da un orafo locale, assorbendone immediatamente l’arte. Tornato a Firenze era talmente bravo che si accaparrò immediatamente i lavori più importanti sulla piazza suscitando gelosie e ogni genere di accuse da parte dell’establishment. Ma fossero state soltanto diatribe verbali! Col caratteraccio aggressivo, polemico e vendicativo del nostro, si passò ben presto alle vie di fatto, con tanto di feriti e relative conseguenze giudiziarie. Al che il Cellini pensò bene di darsela a gambe riparando a Roma dove, grazie ai suoi indubbi talenti e al clan dei fiorentini che allora presiedeva la vita sociale della città, approdò immediatamente alla corte del nuovo Papa, Clemente VII, ovvero Giulio de’ Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico. A quel tempo Roma rappresentava la massima aspirazione per un artista: si stava ricostruendo San Pietro dopo le demolizioni volute dal Bramante, Raffaello affrescava le stanze vaticane e Michelangelo era impegnato con la volta della Cappella Sistina. Così, tanto per dare un’idea.

Ma il Cellini non si limitava a creare vasi e monete, boccali e sigilli per il Pontefice. Col temperamento che si ritrovava, durante il sacco di Roma del 1526 si buttò a capofitto nella mischia bellica improvvisandosi artigliere e uccidendo con un colpo di archibugio il comandante dei lanzichenecchi. E il Papa, per sdebitarsi di essere accorso con tanto merito in sua difesa, lo nominò maestro delle stampe della zecca pontificia, benedicendolo e perdonandogli, come lui racconta nell’autobiografia, tutti gli omicidi che io avevo mai fatti e tutti quelli che mai io farei in servizio della Chiesa apostolica.

Amen.

Ma i Papi cambiano e i fattacci, non solo bellici, del nostro eroe spingono il Cellini a trasferirsi per alcuni periodi prima a Napoli e poi a Firenze, finché Paolo III, dopo una sua fuga dalle prigioni vaticane, gli offrì (forse per liberarsene definitivamente) un salvacondotto per Parigi dove il Cellini approdò nel 1540 alla corte di Francesco I di Valois, re di Francia.

Francesco I era un mecenate delle arti innamorato perso dell’arte italiana e in quel periodo ospitava, oltre al Cellini, Leonardo da Vinci, Rosso Fiorentino e Primaticcio, gli artisti che, letteralmente, portarono oltralpe il Rinascimento italiano. E c’è soprattutto sua nuora, Caterina de’ Medici, colei che italianizzerà definitivamente la corte ricreando costumi, abitudini e fasti gastronomici della cucina toscana. Al Cellini viene offerto un lauto stipendio di 700 scudi l’anno e una residenza gratuita in un castello sulla rive gauche della Senna. In compenso avrebbe dovuto impegnarsi nella creazione di 12 gigantesche statue-torciere a rappresentare altrettante divinità, anche se, alla fin fine, venne realizzato solo Giove, e Giunone restò incompiuta.


È di quegli anni però la realizzazione del suo capolavoro: la celeberrima saliera. Che – a dirla tutta – è un clamoroso riciclaggio. Il Cellini l’aveva infatti già disegnata e modellata in cera in Italia per il cardinale Ippolito d’Este, che però, fatti due conti, aveva deciso di non potersela permettere tale era la quantità di metallo prezioso che necessitava per la sua realizzazione. Così, quando Francesco I gli chiese di stupirlo scolpendo una saliera “degna di un re”, al Cellini non parve vero di poter finalmente concretizzare la sua fantasia all’iperbolico costo di mille scudi che il re sborsò senza fiatare. Trascorsero poi tre anni prima della definitiva consegna del capolavoro, nel corso dei quali il Cellini condensò, in un’unica opera, la preziosità dell’arte orafa con il virtuosismo della scultura, e il risultato fu tale che la saliera entrò immediatamente a far parte del tesoro di Stato. In ebano, oro e smalto, rappresenta le figure sinuose, ma al tempo stesso dinamiche, della dea Terra che sta per unirsi a Nettuno, dio del Mare. E dal loro incontro nascerà il sale (dono delle acque marine) e il pepe (frutto della terra). Il tutto adagiato su un basamento ovale in ebano, in cui sono inserite otto nicchie che raffigurano le teste scarmigliate dei venti e le fasi del giorno, Aurora, Giorno, Crepuscolo e Notte di michelangiolesca memoria. Sotto la base, un marchingegno funzionale incorpora quattro sfere che permettono alla saliera di girarsi in tutti i versi.  

Ma tanto la saliera era piaciuta a Francesco I, tanto poco venne tenuta in considerazione dal suo successore Carlo IX che, dopo averne addirittura considerata la fusione per recuperare l’oro, la regalò all’arciduca del Tirolo Ferdinando II per ringraziarlo di una combine matrimoniale da lui messa a punto. Fu così che la saliera giunse in possesso della Casa d’Asburgo e finirà col tempo al Museo della Storia dell’Arte di Vienna, dove può tuttora essere ammirata. Ma la sua storia non è finita. Nel 2003 tornerà alla ribalta come protagonista di un clamoroso furto. Dopo essere stata trafugata dal museo, ne venne chiesto il riscatto per 50 milioni di euro. Offerta rifiutata dal governo austriaco, che però miracolosamente ritrovò la saliera, un po’ ammaccata, tre anni più tardi in un bosco a circa 90 km dalla capitale austriaca. Il tutto, va detto, in perfetto stile celliniano.

Ma avevamo lasciato il Cellini a Parigi dove, anche lì, era riuscito a inimicarsi un po’ tutti, compresa la favorita del re. Fu così che nel 1545 si decise di tornare a Firenze dove, per chiara fama, venne accolto alla corte di Cosimo I dei Medici che lo elevò immediatamente al rango di scultore di corte, con tanto di stipendio, residenza e fonderia. Non che le cose anche questa volta scorressero tranquille tanto che, nonostante un matrimonio e la nascita di un figlio, il Cellini dovette riparare a Venezia per sfuggire ad accuse varie, tipo sodomia, percosse e adulterio. Ma è di quegli anni la realizzazione di una committenza di Cosimo per un Perseo con la testa di Medusa da collocare nella loggia di piazza della Signoria. La fusione della statua, accuratamente raccontata nell’autobiografia dal Cellini stesso, fu un'impresa quasi "epica", con lo scultore preso da febbri e sudorazione (la classica febbre del fonditore causata dalle esalazioni dei metalli), il fuoco della fornace che si era abbassato per via di un acquazzone, la presunta insufficienza dello stagno alla quale il Cellini avrebbe rimediato gettando nella fusione tutte le stoviglie di casa, ed infine un principio di incendio della bottega. Insomma, di tutto e di più. Ideata in modo da guardare in basso verso lo spettatore, il Perseo aveva un chiaro intento politico: quello di affermare la sovranità del Duca che dà un taglio – e che taglio! – alle velleità repubblicane rappresentate dalla Medusa.

La statua ebbe grandissimo successo di pubblico ma non di critica: venne presa di mira la posa languida e l’eccessiva cura dei particolari, tipica dell’orafo che per i detrattori aveva avuto il sopravvento sullo scultore. Una diatriba di grande attualità a quel tempo, che vedeva Leonardo sostenere la superiorità della pittura su tutte le arti, Michelangelo che ribatteva fosse la scultura, e Cellini che, da par suo, affermava come su tutto dominasse naturalmente l’oreficeria. Insomma, uno scontro tra Titani.

Ma a Firenze la concorrenza incalzava, i governi mutavano e il Cellini si ritrovò senza clienti e costretto all’inattività. Fu così che non potendo più “fare” cominciò a “dire”, anzi a “scrivere”, iniziando nel 1558 la stesura del sua capolavoro letterario, la “Vita”, di cui abbiamo parlato all’inizio, al quale fecero seguito altri due testi fondamentali per il mondo dell’arte: il “Trattato dell’oreficeria” e il “Trattato della scultura”. Benvenuto Cellini morì a Firenze il 13 febbraio 1571 lasciando tutte le sue opere a Francesco I de’ Medici e fu sepolto nella cappella di San Luca, o dei Pittori, annessa al convento della Santissima Annunziata. Dove speriamo che finalmente riposi in pace!

 
 
 

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