SAN SIRO NON E’ SOLO UNO STADIO
A Milano - ma non solo - se dici San Siro dici stadio. Ma non è sempre stato così, ed oggi vorrei accompagnarvi alla scoperta delle origini ma anche dell’attualità di una zona del “quartiere” di San Siro.
Tutto ebbe origine con un piccolo insediamento rurale sulla via per Novara dove si accamparono un gruppetto di milanesi sfuggiti agli eccidi del Barbarossa. Avevano avuto salva la vita ma non il permesso di rientrare, per almeno cinque anni, entro le mura della città. In quella zona scorreva la Vepra (antico nome dell’Olona) e lì, qualche secolo più tardi, venne costruita una chiesina, già menzionata in un documento dell’885, Anno Domini, non 1885.
La chiesina venne dedicata a San Siro, primo vescovo di Pavia, la cui leggenda agiografica celebra il ragazzo che portò a Gesù le ceste dei pani e dei pesci per la famosa moltiplicazione, e che seguì Pietro a Roma per poi essere inviato nella pianura Padana per predicare e convertire quelle popolazioni. Insomma un Santo importante, anche se un po’ di fantasia, che diede nome prima al borgo, poi al quartiere, ed infine anche allo stadio.

Oggi quel che resta della chiesina di San Siro alla Vepra è ancora lì, in via Masaccio 20, a due passi da piazzale Lotto. In effetti “quel che resta” è un’abside, peraltro del XV° secolo, tagliata per il largo ed appiccicata ad una villotta finto medievale del 1926, della cui sinistra fama parleremo più avanti.
Ma torniamo alla storia.
I Benedettini, che gestivano originariamente la chiesa, verso il 1200 passarono la mano agli Umiliati che, due secoli più tardi, dovettero rivolgersi ai privati (né più né meno come si fa oggi) affittando loro terreni e mulini in cambio del restauro della chiesina che però comprendeva anche gli affreschi dei tre absidi. Ma già nel corso del secolo successivo tutto cadde in rovina. I nuovi proprietari, i Pecchio, la abbatterono quasi completamente per collegarla alla loro residenza e salvarono solo le absidi coprendo le pitture con una mano di calce. Nel ‘900 per fortuna l’intera proprietà passò ai Fossati, che ricostruirono la villa, tuttora esistente, si adoperarono per il restauro di quel che restava della chiesina, per la sua riapertura al culto e per il suo riconoscimento come monumento nazionale.
Ma durante la seconda guerra mondiale i Fossati sfollarono in Brianza e l’abitazione restò disabitata diventando facile preda del criminale di guerra fascista Pietro Koch e dalla sua banda. Fortificata con filo spinato, riflettori e sirene, la villa divenne teatro delle violenze disumane inflitte dalla banda Koch agli oppositori politici, mentre la chiesa veniva trasformata in un magazzino.
La drammatica esperienza ebbe però vita breve: le urla sempre più strazianti che provenivano dai sotterranei della villa, le proteste dei milanesi e dello stesso cardinale Schuster, allora arcivescovo di Milano, costrinsero la Repubblica Sociale Italiana a chiudere la struttura. Alla villa restò però attaccato la funesta definizione di “Villa Triste” , un appellativo condiviso con altri centri dell’orrore aperti dai nazifascisti tra il 1944 e il ‘45 in diversi centri del nord Italia.
La fama era talmente funesta che i Fossati, rientrati a Milano alla fine della guerra, decisero di non abitare più la proprietà e la donarono in toto al P.I.M.E., cioè il ramo milanese del Pontificio Istituto per le Missioni Estere che la destinò alle Suore Missionarie dell’Immacolata e il seminterrato, dove un tempo si trovavano le camere di tortura, accoglie oggi le cucine e i ripostigli delle suore. L’abside è stata ancora una volta restaurata ed è diventata una chiesa a tutti gli effetti, anche se un po’ sbilanciata. I lavori hanno riportato alla luce gli affreschi di età sforzesca: sull’altare centrale un Cristo circondato da santi, evangelisti ed apostoli, mentre su quello di sinistra si staglia una bella Madonna con Bambino fra i santi Ambrogio e Agostino. Deliziose anche le nicchie originali dove un tempo trovavano posto le candele e un’acquasantiera ricavata da un sarcofago tardoromano. Tutto questo – e tanto altro – m’è stato raccontato da una simpaticissima suorina, tutta tonda, reduce da 20 anni di missione in Oriente dove ha imparato il cinese. Oggi pare sia la mascotte della comunità cinese di Milano.
Terminata la visita alla chiesa, attraversiamo viale Monte Bianco ed imbocchiamo viale Monte Rosa dove, al numero 91, possiamo ammirare un modernissimo complesso architettonico, tutto in vetro sui toni del verde, perfetto esempio di riqualificazione di aree industriali. Qui, sulle ceneri dell’Isotta-Fraschini prima e della Siemens-Italtel poi, è sorta infatti la sede centrale, gli headquarters come si dice oggi, del Sole 24 Ore, il nostro più autorevole quotidiano economico-finanziario. Progettato e costruito nel 2003 da Renzo Piano, l’edificio si sviluppa su una pianta a forma di ferro di cavallo con al centro una collinetta sormontata da un giardino, che ospita al suo interno un ristorante e parcheggi sotterranei. La si può vedere sbirciando dall’ingresso.

Superato l’edificio di Renzo Piano, al numero 81 incontriamo la sede del PIME, cioè il Pontificio Istituto Missioni Estere (di cui fanno parte le suorine della Casa Triste) che ha recentemente raggruppato tutte le sue attività, che sono tante, in questo imponente complesso di inizio ‘900 con un grandissimo chiostro e un immenso parco che si può tranquillamente visitare.
Ma noi ci avvieremo nel seminterrato dove è stato riallestito un piccolo MUDEC, cioè un Museo dei Popoli e delle Culture
che fa la sua brava concorrenza a quello più modaiolo di via Tortona. L’idea risale al 1910 e nasce dai souvenir che i Padri missionari riportavano a Milano dai loro viaggi e permanenze intorno al mondo: alcuni preziosi, altri storici, ma anche testimonianze “povere” di culture diverse. Tutte comunque con una storia da raccontare.
Tra i tesori va citato ed ammirato un affascinante atlante dell’Impero cinese appartenuto al gesuita trentino Martino Martini e stampato ad Amsterdam nel 1655, mentre tra i dipinti più intriganti mi ha colpita particolarmente una Madonna e Gesù Bambino che abbina l’iconografia cristiana a paesaggi e personaggi cinesi. E poi tanti altri incredibili manufatti: dai tessuti alle incisioni, dai paraventi ai pantheon domestici. Le donne orientali sono rappresentate con sfavillanti kimono, con antiche bambole tradizionali e con la terribile testimonianza delle famigerate “scarpe di loto” nelle quali venivano fasciati i piedi delle nubili per costringerli in calzature lunghe 11 centimetri. Una forma di controllo sociale sulle donne perpetuata nei secoli.
E ancora testimonianze di riti di iniziazione di tribù amazzoniche, collari di donne thailandesi, maschere africane, statue, decorazioni propiziatorie …
Il tutto allestito in teche impeccabili, con sezioni interattive in un ambiente cultural-chic come s’usa oggi. Con tanto di fornitissimo negozio etico, caffetteria, libreria, teatro e biblioteca di 43 mila volumi.
Insomma, tutto quello che ci si aspetta da un museo milanese 2.0.
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