ANCHE MILANO HA LA SUA PICCOLA LOURDES
E’ un periodo in cui ci sarebbe bisogno di qualche miracolo e uno dei luoghi milanesi deputati alla funzione è una chiesa poco conosciuta e che, miracoli o no, vale comunque la pena di farne una destinazione per una delle nostre passeggiate. La chiesa è Santa Maria alle Fontane e si trova a metà circa di via Thaon de Revel all’Isola. Per i non milanesi l’Isola è un ex quartiere popolare di Milano, Oggi prediletto dai giovani, che si trova a nord del centro cittadino, fuori porta Garibaldi.
Una leggenda metropolitana attribuisce il nome al fatto che la zona venisse fisicamente separata dalla città a metà Ottocento dalla ferrovia Milano-Monza, ma in effetti la denominazione è molto più antica. Già in una mappa del Catasto Teresiano del 1720 conservata all’Archivio di Stato, è disegnato un riquadro in cui si legge “Insola de Porta Comasina”. Il effetti il toponimo Isola era frequente nei terreni lombardi per definire gruppi di campi con cascina delimitati da corsi d’acqua, proprio come vere e proprie isole. E in effetti da queste parti si trovavano una quantità di fontanili oltre che il Seveso, la Martesana e il Redefossi.
Ma torniamo alla nostra storia. Narra la leggenda che fin dal Medioevo, in questa zona, zampillassero 11 fonti miracolose, che guarivano un po’ tutti i mali ed erano quindi meta di devoti pellegrinaggi. All’inizio del ‘500 arriva a Milano, al seguito del re di Francia, Carlo II d’Amboise, raffinato e colto militare francese di nobile origine, che viene nominato governatore. Munifico mecenate, amico di Leonardo e avido collezionista di monete, soffrirà di dolorosissimi disturbi alle ossa e, precursore del detto When in Rome, do as the Romans do, anche lui si recò a bagnarsi nelle acque delle fontanelle venendone miracolato. Fu quindi per gratitudine che commissionò ad Antonio Amadeo la costruzione del primo nucleo del santuario di Santa Maria alla Fontana, ma si mormora che ci abbiano messo mano anche il Bramante e il suo amico Leonardo. Nucleo poi abbondantemente rimaneggiato nei secoli ma che conserva sul retro, quattro metri sotto il piano della città, uno stupefacente loggiato con due chiostri ai lati di un sacello con le 11 fontanelle originali tuttora zampillati.
L’attuale chiesa ha una facciata d’ispirazione bramantesca e un interno imponente di un bianco accecante nel quale si staglia un altare maggiore in brillantissimi marmi policromi. Tutto “un po’ così”, come direbbe Paolo Conte. Ma la cosa da fare è scendere la scaletta che si trova a destra dell’altare maggiore per raggiungere il luogo delle meraviglie. Al termine della rampa apparirà infatti il retro della chiesa con relativi chiostri cinquecenteschi e sequenze di archi e colonne dei loggiati che si dispiegano tutt’intorno a corona. Va ricordato che nel ‘500, anche per via delle acque, Santa Maria alla Fontana era considerata, assieme alla Ca’ Granda e al Lazzaretto, uno dei tre capisaldi della struttura sanitaria di Milano.
Ma la vera attrazione artistica è il Sacello, o “recinto sacro”, di una bellezza unica, che invita al raccoglimento e alla preghiera in solitudine. Gli affreschi sono stati realizzati in periodi diversi e comprendono le grottesche rosse dell’ex sacrestia con arabeschi, animali e finte architetture, ma soprattutto gli spettacolari spicchi della volta che raffigurano undici dei dodici apostoli e culminanti nel Dio padre benedicente in legno e stucco dorato collocato nella chiave di volta. I santi della cupola appaiono tutti un po’ tutti acciaccati e sofferenti, a rappresentare i rispettivi martirii, ma anche le varie malattie curate dall’acqua.
Sotto l’altare zampillano, proprio come mille anni fa, le 11 fontanelle miracolose, semplicissime e, proprio per questo, affascinanti. Attenzione: l’acqua va bevuta da tutte le fonti, quindi mescolata nei bicchierini di carta cortesemente offerti dalla Parrocchia, oppure raccolta nella bottiglia che vi porterete da casa. Come vedete anche Milano ha la sua piccola Lourdes.
Lasciata Santa Maria alla Fontana attraversiamo la strada per raggiungere il numero 21 di via Thaon de Revel. Anticamente qui si trovava una cascina che faceva parte dei beni del vicino santuario mentre oggi, fra uno studio di design e uno di architettura, c’è una raffinata “location” per mostre, eventi e manifestazioni culturali. Nel periodo di mezzo, cioè tra l’inizio dell’Ottocento e il 1975, vi si poteva trovare invece la più prestigiosa fonderia milanese, quella che ancor oggi viene ricordata come “Fonderia Napoleonica”.
Fu infatti con l’arrivo di Napoleone che terreni ed edifici ecclesiali vennero requisiti dall’esercito francese e nel 1806 il viceré Eugenio di Beauharnais dispose che la cascina di Santa Maria alla Fonte venisse destinata ad accogliere una fonderia di bronzo. L’incarico venne affidato ai fratelli Manfredini, orafi ed esperti fonditori richiamati per l’occasione da Parigi e ricordati soprattutto per la fusione della sestigia collocata sull’Arco della Pace del parco Sempione. Nel 1830 ai Manfredini subentrarono i Barigozzi che la dotarono di un grande forno a riverbero e la Fonderia Napoleonica si specializzò nella realizzazione di complessi di campane, i cosidetti “concerti”, tipici della tradizione ambrosiana.
L’interno è grandioso. Perfetto esempio di archeologia industriale, prevede al piano terra un grande spazio espositivo, mentre al piano superiore è stato organizzato una sorta di museo d’impresa che racconta l’affascinante storia della fonderia.
Le campane dei Barigozzi erano famose non solo nelle località lombarde e piemontesi, ma venivano esportate un po’ ovunque nel mondo, dal Canton Ticino al Sud America, da Malta alle allora colonie italiane di Somalia e Libia. Il trasporto del prodotto finito era un aspetto importante e spesso conveniva costruire un forno in loco e mandare personale specializzato a seguire il lavoro.
Così avvenne anche ai primi del ‘900, allorché l’azienda venne incaricata del rifacimento delle campane di San Marco a Venezia, andate distrutte a seguito dell’implosione del campanile. Ma la trasferta non piacque affatto ai dipendenti che protestarono sonoramente, anticipando le rivendicazioni sindacali sulle trasferte, perché “lì, cioè a Venezia, parlavano un’altra lingua (veneto invece di milanese), si mangiava pesce (invece di carne) e soffiava vento (mentre loro erano abituati alla scighera). Insomma, assoluto disagio.
Pare che le fonderie che fanno campane non facciano statue, e viceversa.
I Barigozzi rappresentarono una lodevole eccezione e accanto all’antico forno vengono ancora conservati i modelli in gesso di alcuni lavori artistici. Tra i monumenti più famosi realizzati per Milano va ricordato quello di Alessandro Manzoni di piazza San Fedele, quello di Luciano Manara ai Giardini Pubblici e soprattutto quello di Vittorio Emanuele II di piazza Duomo. Il trasporto in loco di quest’ultimo è una storia a sé. Il quartiere, cioè l’Isola, a quel tempo era delimitato da una parte dal Naviglio e dall’altra dalla ferrovia. Mettere tonnellate di piombo su una barca era impensabile, quindi si pensò di costruire un ponte sopra la ferrovia. Detto fatto, ma i muli addetti al trasporto del carro non ce la facevano a salire sul ponte, si rifiutavano… Insomma, un problema mica da ridere. La soluzione arrivò da un vicino di fabbrica, la Gondrand che allora faceva ghiaccio ma che aveva nel frattempo inventato un nuovo sistema di trasporto, l’ancoraggio, scoperta che la trasformerà poi nel leader mondiale dei trasporti.
Oggi quel mondo non esiste più. La Fonderia ha cessato l’attività nel 1975 ma continua ad essere luogo di lavoro, arte e cultura dove si coltiva la memoria del passato.
Con la protezione, forse, dei santi e martiri i cui calchi in gesso da porre sulle campane come ornamenti sono conservate nella cosidetta stanza del “Paradiso”.
Anche le parole aiutano ad andare avanti.
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