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Immagine del redattoreWilma Viganò

Via Stilicone

Aggiornamento: 11 ott 2021

IL NOIR A MILANO


Oggi vorrei accompagnarvi in visita, ma soprattutto raccontarvi le incredibili storie che ruotano attorno a Villa Simonetta, già definita la più lussuriosa ma anche, aggiungerei io, la più noir tra le antiche ville di delizia milanesi. Oggi pressoché nascosta dal cemento di via Stilicone (siamo in zona Cenisio, dalle parti del Monumentale), se non la conoscete appare improvvisamente, girato l’angolo, nella sua imponente maestosità e non potrete esimervi dal tradizionale “Oh” di meraviglia!

Villa Simonetta  - esterno - Wilma Viganò

In effetti è molto anomala per Milano. In perfetto stile rinascimentale, fu voluta verso la fine del Quattrocento dal cancelliere di Ludovico il Moro, tale Gualtiero Bascapè, che aveva acquistato il terreno (allora fondo agricolo in aperta campagna) dall’Ospedale Maggiore. Bascapè visse nella villa, allora denominata “La Gualtiera”, solo per due anni prima di morire. La villa passò quindi di mano dando inizio ad una sequela infinita di proprietari, tutti ovviamente di gran nome e soprattutto di grande disponibilità finanziarie, date le sue dimensioni. Cominciarono i Rabia, seguiti dai Cicogna e dai Gonzaga. E si deve al Governatore di Milano Ferrante I Gonzaga l’ulteriore ampliamento. Da buon politico volle infatti trasformarla in lussuosa residenza di rappresentanza. Fu così che nel 1574 l’architetto pratese Domenico Giuntalosi ideò le due ali laterali che andarono a formare l’attuale pianta a U che si apre in direzione del giardino. Di particolare impatto è la facciata che comprende un imponente portico a nove arcate sovrastato da due ordini di logge con balaustre ornate, mentre gli interni erano pressoché completamente affrescati con dipinti raffiguranti le imprese dei Gonzaga.

Ma finiti i lavori il Governatore venne trasferito in Spagna e la villa passò alla famiglia Simonetta, da cui il nome, che ne fece uno dei luoghi mondani più inquietanti della Milano barocca. È di questo periodo infatti il cold case che ha marchiato per primo la fama di questo luogo. In effetti i Simonetta avevano acquistato la villa per esiliarvi la loro figlia Clelia che, rimasta vedova in età giovanile, era molto chiacchierata in città per via del suo vezzo di saltare da un’alcova all’altra. Clelia venne quindi spedita in forzoso isolamento fuori le mura nella speranza che mettesse giudizio. Il fatto è che successe proprio il contrario. Anziché pentirsi, la vedova allegra approfittò dell’isolamento della villa per organizzarvi in tutta libertà feste sfarzose e lussuriose che finirono ben presto sulla bocca di tutta Milano. Si mormorava che gli invitati, una volta arrivati alla villa, dovessero far sosta in un bagno turco per lavarsi e girare poi nudi nelle sale per sperimentare i piaceri del sesso.

Ma ad un certo punto forse Clelia esagerò perché, nel corso degli anni, venne accusata di aver fatto sparire almeno undici ragazzi tra i più belli e prestanti della zona. Le voci l’accusavano di aver organizzato giochi erotici talmente spinti da portare alla morte dei partecipanti. O addirittura di essere una specie di mantide religiosa che, con le parti del corpo delle sue vittime, aveva creato nelle cantine una sorta di golem, una mostruosa creatura poi sfuggita al suo controllo. La verità non venne mai a galla e quel che rimane è una delle storie più truculente di Milano.

Villa Simonetta  - particolare Eco - Wilma Viganò

Ai Simonetta succedettero nei secoli i Castelbarco, i Clerici e gli Osculati ma la villa divenne famosa in tutta Europa (ne parla persino Stendhal) per una sua curiosa caratteristica: l’eco. Pare infatti che, gridando una parola dalla finestra del terzo piano “nel mezzo del fianco di ponente verso la parte anteriore del cortile”, la parola stessa si moltiplicasse fino a 40 ripetizioni, mentre un colpo di fucile risuonava per ben 75 volte! Da qui la storiella milanese che, se qualcuno avesse urlato: “Ma come se fa a avegh inscì tanta bella robba? ” (come si fa ad avere tanta bella roba?), l’eco avrebbe risposto: “Robba, robba, robba…” (cioè ruba, ruba, ruba…). Si narra inoltre che autore della prodigiosa sonorizzazione fosse un inglese che, tornato in patria, cercò di replicarla. Ma non ci fu verso, e il tapino si suicidò dalla disperazione. Purtroppo con i danneggiamenti della seconda guerra mondiale, l’eco si è persa.

Per tornare alla successione di proprietà, a inizio Ottocento la villa risulta appartenere ai membri della cosiddetta “Compagnia della teppa”, cioè un gruppo di giovani nobili annoiati, inizialmente accomunati dall’odio verso gli austriaci, ma successivamente accecati da una sorta di delirio di onnipotenza miseramente virata verso assurde forme di goliardia e libertinaggio. Tanto per dire, risale sempre a quel periodo il soprannome dato alla residenza di “villa dei balabiott”, cioè villa di quelli che ballano nudi (che del resto era una tradizione visti i precedenti di Clelia Simonetta!). La compagnia della teppa non durò molto, solo cinque anni, fino al 1821, ma furono sufficienti a terrorizzare i milanesi e a coniare il termine tuttora utilizzato di “teppista” per indicare chi commette azioni vandalistiche o violente.

Le cronache dei tempi riportano con accuratezza le loro bravate, l’ultima delle quali determinò la loro estinzione. Si racconta infatti che ad un certo punto il capo della banda, conosciuto come Barone Bontemp, decise di organizzare uno scherzo ai danni delle ragazze milanesi accusate di essere un po’ troppo svenevoli nei confronti delle truppe austriache. Il piano prevedeva l’arruolamento a suon di soldoni di un gran numero di storpi, nani e deformi promettendo loro una cena in villa che si sarebbe conclusa con tante donnine compiacenti (insomma, un bunga bunga ante litteram). Al tempo stesso i vari soci della banda invitarono un buon numero di fanciulle della Milano “bene” ad una cena elegante a Villa Simonetta, come del resto era già successo in passato. Ma questa volta a metà cena le ragazze si ritrovarono travolte da una masnada di nani e storpi assatanati capitanati da Gasgiott, ai tempi il nano più famoso di Milano, ridicolmente abbigliati con vestiti di gala recuperati nelle sartorie della città e soprattutto convinti di avere a che fare con professioniste ben pagate e pronte a tutto.

La scena divenne folle e lo scherzo volse al peggio nel momento in cui proprio il Gasgiot estrasse un coltello e iniziò a menare fendenti tanto che dovettero intervenire i “teppisti” per sedare la rissa (il che è già un ossimoro!). Per fortuna la serata si concluse solo con qualche ferito lieve e le ragazze salve. Ma questa volta i teppisti non la passarono liscia. Sfortuna volle infatti che tra le fanciulle fosse presente la figlia di un nobile molto amico del viceré austriaco che si vide costretto a prendere provvedimenti. Alcuni dei giovinastri furono esiliati in Svizzera, mentre altri vennero arruolati a forza nell’esercito austriaco e spediti al fronte. Fine della storia.

Ma se la villa, fino ai tempi della compagnia della teppa era ancora considerata luogo di delizie, a fine Ottocento il giardino retrostante è sconvolto dal passaggio della ferrovia, che condanna l’intera zona ad un’inesorabile decadenza. La prestigiosa residenza neoclassica prima diventa ospedale per i malati di colera (proprio per la sua collocazione ai margini della città), poi fabbrica di candele, officina meccanica, casa operaia, caserma, falegnameria fino a osteria. I bombardamenti agli scali ferroviari dell’ultima guerra mondiale misero fine alla sua lenta agonia, con la distruzione della facciata e il totale abbandono delle strutture.

Per fortuna nel 1959 subentrò il Comune che, in accordo con gli abitanti della zona, mise in atto una bonifica ambientale e un accurato restauro della struttura esterna adattando gli interni alla nuova destinazione, cioè la sede della Civica Scuola di Musica “Claudio Abbado”. Oggi nel grandino vengono organizzati d’estate i saggi di fine anno degli oltre mille allievi della scuola. Sul retro si possono così ammirare i resti dell’antico fossato di difesa e, qua e là, vestigia del passato splendore. All’interno val la pena di ammirare la scalinata laterale, dove si sono salvati alcuni affreschi originali delimitati da un bellissimo corrimano in pietra inserito nella parete.

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