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  • Immagine del redattoreWilma Viganò

Via Sant’Antonio Abate

Aggiornamento: 11 ott 2021

…QUEL DEL PORSCHELL


Innanzi tutto mi sento di darvi un consiglio.

Se a Milano vi capita di nominare Sant’Antonio, meglio essere precisi. Potrebbero infatti chiedervi: “… sant’Antoni de Padoa o quel del porscell?(Sant’Antonio di Padova o quello del maiale?).

Il fatto è che a Milano di Sant’Antoni ne veneriamo due.

Oltre a quello più popolare di Padova, siamo molto affezionati anche ad uno più antico, che risale ai tempi del Medio Evo. E per ricostruirne la storia, avviamoci sul luogo dei fatti, e cioè alla chiesa e ai chiostri di Sant’Antonio Abate, in via Sant’Antonio al 5, di fianco all’Università Statale.

Qui, sin dall’anno Mille, era attivo un ospedale, “specializzato” si direbbe oggi, nella cura di un fastidioso quanto allora diffusissimo malanno: l’herpes zoster, altrimenti detto “fuoco sacro”, quella malattia che, purtroppo ancor oggi molti sanno, può provocare dolori lancinanti, oltreché antiestetiche eruzioni della pelle. L’unica cura a quei tempi era il grasso di maiale che, applicato sulla parte infiammata, ne leniva il dolore. E l’ospedale, per autofinanziarsi i medicamenti, molto coerentemente allevava porci.

Fu in questa ambientazione che, nel 1272, arrivarono a Milano gli Antoniani, l’Ordine religioso dei seguaci di Sant’Antonio Abate, un anacoreta egiziano vissuto duecento anni dopo Cristo, quasi sempre nel deserto africano, dove pare subisse ogni tipo di tentazione da parte del diavolo. Come magistralmente raccontato da Jannacci e dai Gufi con la canzone “Sant’Antonio allu desertu” ispirata ad un canto di questua abruzzese. Fine dell’inciso. Orbene, i seguaci dell’eremita egiziano, che arrivarono a Milano provenivano dall’abazia madre di Vienne in Francia erano monaci severi, tutti vestiti di nero con una croce azzurra a forma di T greca sul petto. Non sapendo dove sistemarli il Vescovo li dirottò nell’ospedale del fuoco sacro, e qui i monaci iniziarono a svolgere così coscienziosamente il loro lavoro che, da lì a poco, la malattia cambiò addirittura nome per diventare il “fuoco di Sant’Antonio”.

L’efficacia dei loro interventi era così popolare da far guadagnar loro la protezione dei Visconti, che permisero la libera circolazione per la città dei porci dei frati riconoscibili a vista, rispetto a tutti gli altri, grazie ad una T marchiata sui quarti posteriori. E chi li avesse maltrattati o se ne fosse appropriato, avrebbe subito pesanti sanzioni, sia materiali che spirituali. La strana usanza ebbe termine nel 1548 quando il governatore Ferrante Gonzaga la abolì per “il brutto puzzare” che i porcelli disseminavano per la città, mentre la cura dell’herpes venne delegata alla costituenda medicina centralizzata della Ca’ Granda.

Chiesa S. Antonio Abate - Facciata - Wilma Viganò

Ai milanesi resta però una fantastica tradizione culinaria di quella stagione: la cassoeula, piatto tipico legato alla festa di Sant’Antonio che si celebra il 17 gennaio, cioè la data che segnava la fine del periodo di macellazione dei maiali. E i tagli di carne utilizzati per la cassoeula erano quelli economici, avanzati dai medicamenti, ma ideali per insaporire la verza, elemento basilare invernale della cucina lombarda. E con ciò, fine della storia dei maiali e torniamo alla nostra chiesa.

A fine ‘500, l’intero convento degli Antoniani venne assegnato da Carlo Borromeo ai padri Teatini, espressione del rinnovamento della vita ecclesiastica prima del Concilio di Trento, che procedettero ad una drastica ristrutturazione. Dell’antica abbazia è sopravvissuto solo il campanile quadrato, in mattoni a vista, con la tradizionale cuspide a cono. I Teatini, a differenza dei predecessori, godevano di importanti risorse economiche e chiamarono i più importanti artisti che operavano all’epoca su Milano a decorare l’interno della loro chiesa.

Il risultato è un’esaltante antologia dell’arte barocca lombarda dove l’esuberanza degli ornamenti – stucchi, capitelli, affreschi – sembra non aver mai fine. Vi segnalo innanzi tutto la seconda cappella sulla sinistra, affrescata dal Procaccini con un sensuale ciclo sulla vita della Vergine, ed un incredibile altare policromo composto da un’infinità di pietre dure e preziose . E poi la volta, dedicata alla storia della Vera Croce, coerentemente con la reliquia della croce di Cristo conservata nella cappella del transetto di sinistra. Interni super sfarzosi, in gran parte sovvenzionati da ricche famiglie milanesi, i cui membri, come la nobildonna Dardanona Rho (m’ha colpito il nome!) qui trovavano in cambio sepoltura.

Chiesa S. Antonio Abate -  Organo- Wilma Viganò

Un altro particolare degno di nota è l’imponente organo, collocato sopra l’ingresso principale, che è al contempo uno straordinario capolavoro di artigianato e un importante cimelio storico. L’organo, originariamente costruito nel ‘700, venne completamente rifatto nell’800 utilizzando però le canne originarie e tutto il lavoro è coscienziosamente documentato nell’archivio storico del santuario. Tra l’altro la tastiera ha una coloritura invertita rispetto alla tradizione, con i diatonici neri (in ebano) e i cromatici placcati in osso bianco. Ma la valenza storica dell’organo è rappresentata dal fatto che il giovane Wolfang Amadeus Mozart, nel corso del suo ultimo soggiorno milanese, proprio qui compose lo sfavillante “Exsultate, jubilate” per soprano e orchestra dedicato a Venanzio Rauzzini, il celeberrimo virtuoso dell’epoca che, sempre qui nella chiesa, interpretò la sonata al debutto il 17 gennaio 1773, festa di Sant’Antonio. Tutto torna.


Nell’Ottocento il convento toccò il fondo del decadimento, tanto da essere trasformato prima in prigione austriaca e poi in cappella militare. Sino all’arrivo del cardinale Schuster che, nel 1930, lo riscattò e provvide al completo restauro. E fu così soddisfatto del lavoro che ci venne ad abitare.

Uscendo dalla chiesa vale assolutamente la pena di entrare nei due chiostri adiacenti dell’antica abazia, anche loro perfettamente restaurati. Il primo, con belle arcate e fregi in terracotta, riporta grifoni alati e scudi araldici, oltre a teste di vecchio con baffi e barba su due lati, alternati ad una sequenza di teste giovani. Il secondo chiostro è stato invece coperto e trasformato in auditorium, che ospita di frequente anche lezioni della vicina Università Statale, soprattutto della facoltà di Legge. Con relativa invasione di giovani che fanno rivivere gli spazi degli antichi frati … dei porschell!

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