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Immagine del redattoreWilma Viganò

Piazza Oberdan

UNA PORTA, UN PALAZZO E DUE COLONNE


Oggi vi propongo una visita (virtuale o no, decidete voi) a Porta Venezia, alias Piazza Oberdan. “Capirai!” diranno in molti, “che novità! Chi mai non c’è stato?”. Andati, ci siamo senz’altro andati tutti, ma quanto di noi si sono fermati anche solo pochi minuti prima di tuffarsi nello shopping a più alta concentrazione europea di negozi di corso Buenos Aires? In effetti credo che a Porta Venezia ci siamo sì passati tutti, ma senza guardarla veramente.

Porta Venezia - Wilma Viganò

Tanto per cominciare Porta Venezia non è una porta, ma bensì due caselli daziari. A dire il vero una porta c’era, collocata lungo la cinta dei bastioni spagnoli sulla via per Venezia e conosciuta nei secoli come Porta Renza, o Porta Orientale o, ancora, Porta Riconoscenza. E tanto per attualizzare il tutto e parlar di pandemie, secondo le cronache seicentesche fu da questa porta che, nel 1630, tale Pietro Antonio Lovato entrò a Milano carico di divise e averi infetti sottratti ai lanzichenecchi impestando la città e provocando più di 140.000 morti. E fu sempre da questa porta che Renzo Tramaglino, di manzoniana memoria, fece il suo ingresso a Milano ne “I promessi sposi “.

Ma la funzione difensiva che la porta aveva avuto durante la dominazione romana, medievale e spagnola venne sostituita, dal Settecento in poi, dalla sola riscossione dei dazi ed ecco quindi anche la necessità di aggiornarne l’aspetto. A inizio Ottocento il Piermarini, già intento a rimodernare tutti i bastioni e i vicini Giardini Pubblici, cominciò a ridisegnare anche il rifacimento della vecchia struttura, ma il progetto stentava a decollare. Tant’è che per ben due volte (data l’urgenza per il passaggio di personaggi altolocati che entravano ufficialmente in città) si arrivò addirittura a costruire degli archi scenografici in cartongesso immediatamente smantellati dopo le cerimonie. Insomma delle messinscene degne di spettacoli della Scala!

E visto che non si arrivava da nessuna parte, nel 1826 venne indetto un concorso pubblico per il rifacimento della porta a cui parteciparono 32 concorrenti e che venne vinto dall’architetto bresciano Rodolfo Vantini, conosciuto soprattutto – udite! udite! – per la progettazione di cimiteri. Il Vantini disegnò due edifici gemelli di forma cubica in stile neoclassico e si occupò lui stesso del ricco “arredo” con statue e rilievi (del resto era abituato con le tombe!). Otto statue simboliche, al riparo di nicchie, adornano infatti le facce dei caselli, mentre in alto altrettanti bassorilievi (ricordate che bisogna sempre guardare per aria!) raccontano i fatti più salienti della storia della città: da Francesco Sforza che fonda l’Ospedale Maggiore al rientro dei milanesi dopo le razzie del Barbarossa. Le statue, in marmo di Carrara, sono più simboliche: si va da “L’Eternità” a “La Concordia”, da “Minerva” a “Mercurio”. Peccato che all’Abbondanza manchi la mano sinistra e alla Fedeltà il naso. All’epoca della loro costruzione, i caselli piacquero molto ai “sciuri” che, dalle loro magioni di corso Venezia, potevano continuare ad ammirare il Resegone senza l’ingombro di un arco. Inizialmente avevano però arricciato un po’ il naso per la scarsa eleganza delle costruzioni, salvo ricredersi l’anno seguente quando vennero aggiunti i ricchi decori e due cubi più piccoli in cima a ciascuna unità, a mo’ di torretta belvedere.

Corso Buenos Aires 1 - Palazzo Luraschi, interno - Wilma Viganò

E a proposito del Resegone, per proseguire la nostra passeggiata il consiglio è quello di volgere l’attenzione al palazzo che fronteggia la Porta sulla sinistra, al numero 1 di corso Buenos Aires palazzo che fu protagonista di un casus belli cittadino ai tempi della sua costruzione.

Questo borghesissimo edificio, recentemente restaurato, fu infatti tra i primi in Italia a raggiungere i sei piani d’altezza e ad infrangere una precisa norma meneghina (anche se non scritta) denominata “Servitù del Resegone”. Secondo tale regola, a cui tenevano particolarmente i sciuri di cui sopra, prevedeva che le case costruite nella parte settentrionale di Milano non dovessero superare i tre piani per non impedire la vista delle Prealpi e del “seghettato” monte Resegone tanto caro al Manzoni e celebrato al tramonto da tutti i milanesi.

E palazzo Luraschi, dal nome del suo proprietario, architetto e costruttore Ferdinando Luraschi, che venne costruito tra il 1881 e il 1887, infrangeva clamorosamente tale regola. Ma soprattutto, la cosa che giustamente fece grandissimo scandalo ai tempi fu il fatto che, per far spazio alla speculazione edilizia e alla costruzione del palazzo, venne completamente distrutto lo storico Lazzaretto, patrimonio della storia della città e luogo simbolo dei Promessi Sposi. Il capomastro del cantiere, tale Angelo Galimberti, venne addirittura soprannominato “il Barbarossa di Porta Venezia”.

Per smorzare un po’ i toni e forsanche per mettere a tacere la propria coscienza, il Luraschi, che aveva anche l’aggravante di essere stato amministratore del Lazzaretto per conto dell’Ospedale Maggiore, decise di salvare alcune colonne della vecchia struttura e di dedicare il cortile del suo palazzo al Manzoni, deceduto quattordici anni prima. E il cortile, spiace dirlo, nato per via della suddetta speculazione edilizia, val proprio la pena di essere visitato. Vi si si può tranquillamente accedere varcando un elegantissimo portone e i simpatici custodi “ci tengono” (come si dice a Milano) alle visite. Sopra le colonne delle arcate che lo circondano sui quattro lati si possono infatti ammirare dodici piccoli busti che rievocano i protagonisti dei Promessi Sposi: Renzo, Lucia, fra’ Cristoforo, il cardinale Borromeo, don Rodrigo, la Monaca di Monza... e tanti altri. E può essere divertente giocare a riconoscerli.

Sotto le arcate laterali di destra, potrete poi ritrovare quattro preziosissime colonne originali del Lazzaretto, facilmente riconoscibili perché un po’ rialzate alla base per adeguarsi alla maggiore altezza della struttura. Pare che fino al 1940 il palazzo fosse conosciuto per l’elegante ristorante “Puntigam”, in esercizio sin dai tempi della costruzione. Caratteristica del locale era quella di essere dotato di numerosi tavoli all’aperto (i déhors di oggi) dove “ci si faceva vedere” dai passanti. E forse è lì che è nata la movida milanese.

Piazza Oderdan - Colonne - Wilma Viganò

Ma non è finita. Tra la porta (Venezia) e il palazzo (Luraschi) non possono sfuggire altre due imponenti colonne neoclassiche, messe lì senza una particolare apparente ragione. Il fatto è che non si tratta dei resti di un antico tempio, e nemmeno dei ruderi di un monumento incompiuto, bensì di due prosaici camini abbelliti e mimetizzati. Bisogna infatti sapere che nel sotterraneo della piazza venne costruito, nel 1925, l’albergo Diurno Venezia che comprendeva 30 cabine per bagni (sia lussuose che di minor costo), 6 cabine con doccia e spogliatoio, 10 gabinetti da toilette, sedute per barbieri e lustrascarpe, guardaroba, stireria… Ma anche servizi accessori, quali una banca, cabine telefoniche e depositi per biciclette. Insomma, una vera cittadella dell’igiene e del benessere. Una perfetta beauty farm, come diremmo oggi.

Orbene, la caldaia per il riscaldamento necessitava ovviamente di uno sfiatatoio che, per ragioni puramente estetiche (siamo in pieno periodo Liberty), venne rivestito dall’architetto Piero Portaluppi in modo da apparire come una colonna, alla quale – sempre per ragioni decorative – ne venne appaiata un’altra del tutto simile, ma senza alcuna funzione. Era previsto anche un monumento, ma non se ne fece niente. La concessione iniziale aveva una durata di 30 anni e, una volta scaduta, l’Albergo, con tutti gli arredi, è tornato di proprietà del Comune, e ci si può oggi accedere solo in giornate speciali con visite guidate. Ora pare che il Comune, in accordo con il Ministero della Cultura, abbia deciso di rimetterci mano per trasformarlo in Museo dell’Arte Digitale, per gli amici MAD. Mah, vedremo. Nell’attesa date un’occhiata alla bella cancellata, con tanto di pensilina, di uno dei due accessi all’ex Diurno. L’altro, rimosso in occasione dei lavori per la metropolitana, non è stato più ritrovato.

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