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  • Immagine del redattoreWilma Viganò

Monasteri di clausura - 2

Via Ponzio e via Marcantonio Colonna

Riprendiamo le visite ai conventi di clausura milanesi, quei misteriosi luoghi probabilmente sconosciuti ai più, ma che fanno parte della fascinazione spirituale, storica ed artistica della nostra città. La scorsa puntata abbiamo visitato le Clarisse di Gorla e le Benedettine di via Bellotti, mentre oggi propongo come prima destinazione le Agostiniane di via Ponzio 46, sul retro del Politecnico, dove non possiamo mancare il monastero della Presentazione con la chiesa dedicata a Santa Monica.

Chiesa di Santa Monica - Wilma Viganò

E l’impressione è impattante. Monastero o roccaforte? Rifugio o prigione? Domande inquietanti che credo sorgano spontanee trovandosi per la prima volta di fronte all’imponente e rigoroso enclave che occupa un ampio quadrilatero, quasi un quartiere. La sua storia parte da lontano, ripercorrendo il filo della cristianità milanese. Il complesso monastico è infatti abitato dalle suore agostiniane che si rifanno ovviamente, ma non solo, alla dottrina di Sant’Agostino, il santo filosofo, vescovo e teologo nato a Tagaste in nordafrica, ma che arricchì a Milano la pienezza della sua fede arrivando ad essere scelto per il battesimo di Sant’Ambrogio.

Nei secoli gli ordini agostiniani, sia maschili che femminili, furono numerosissimi e declinati in varie forme. Quello delle suore di clausura (cioè principalmente, anche se non esclusivamente, dedicato alla vita contemplativa) si era insediato da centinaia d’anni all’inizio di corso di Porta Vittoria dove si trovava un incredibile conglomerato di monasteri, da quelli di San Pietro in Gessate e Santa Maria della Pace, a quelli di San Filippo Neri, di Santa Prassede e delle nostre Agostiniane della Presentazione con annessa chiesa di Santa Monica. Sopravvissute e miracolosamente reintegrategrate nella sede originale dopo le epurazioni napoleoniche, le povere monache però nulla poterono contro la visionaria volontà del regime fascista che in quel luogo volle edificare uno dei suoi simboli più imponenti e spettacolari della città: quell’immenso elefante bianco che è il Palazzo di Giustizia. Fu così che tre dei cinque conventi di Porta Tosa vennero completamente rasi al suolo e i (o le) residenti invitati a cercarsi un’altra sede. Insomma, la Milano che cambia. Che crea e che distrugge.

Fu così che le monache sfrattate, che allora erano un centinaio, si fecero costruire un nuovo complesso un po’ più periferico verso Città Studi, affidando l’incarico all’ing. Giuseppe Invitti, che pochi anni dopo avrebbe progettato anche il Santuario di Santa Rita alla Barona (che in effetti gli somiglia). Tutto in puro stile Novecento, compresa la chiesa del nostro convento (alla quale è possibile accedere al tempo delle Messe) che coniuga grandiosità e razionalismo. La chiesa è dedicata a Santa Monica, la madre di Agostino, che, rimasta vedova, sostenne il figlio fin dalla tumultuosa giovinezza sino ad accompagnarlo nel suo soggiorno milanese. Ammalatasi, cercò di rientrare in patria ma le sue forze cedettero poco prima di imbarcarsi ad Ostia ed è tuttora sepolta nella chiesa di Sant’Agostino a Roma. È considerata la patrona delle vedove, delle donne sposate e delle madri. L’interno della chiesa milanese lascia senza fiato, nel bene e nel male. Buia e grandiosa, maestosa ed austera, monumentale e solenne, prende luce unicamente da un’apertura circolare sopra l’altare maggiore, da cui sembra calare la luce direttamente da Dio. Sul lato destro dell’altare una conturbante ed altissima grata separa l’aula delle monache, attivissime sia nella preghiera che nell’apostolato, ma oggi ridotte a poche unità.

All’esterno, in attesa alla fermata del tram a lato del convento, faccio però una scoperta consolante: l’altissima struttura che sembra imprigionare le povere suore è in effetti, per gran parte, una finzione. Non una prigione, ma un alto muro eretto a salvaguardare la privacy e il raccoglimento delle monache dedicate al silenzio e alla meditazione. Che io mi sono immaginate sorridenti e serene in un rigoglioso giardino segreto, preludio al Paradiso.


Per visitare il quarto ed ultimo convento milanese, dobbiamo ora attraversare la città per approdare nella zona del Portello, e precisamente al numero 30 di via Marcantonio Colonna dove ha sede il convento delle Carmelitane Scalze con la chiesa di Santa Teresa di Gesù Bambino.

E qui, signori miei, ho parlato con l’aldilà. No, non pensate che mi sia fumata il cervello. Ho solo avuto il privilegio di essere ammessa nel parlatorio del convento dove, con l’emozione di comunicare attraverso la storica ruota velata, ho parlato con la Badessa e con suor Elvira. Niente di che. Quattro chiacchere leggere come un soffio che però, non so come e perché, sono riuscite a trasmettere un vissuto “altro”. Un suono di voci – le loro – modellate nel silenzio, che grondavano accoglienza, allegria, serenità, empatia, e persino giovinezza. Una musica dall’aldilà che spero di “tenermi in testa” per lungo tempo a venire.

La costruzione del convento è relativamente recente. Sorse infatti negli anni Trenta del Novecento per accogliere dieci monache Carmelitane Scalze provenienti da Modena e Firenze che intendevano inaugurare un nuovo Carmelo, dopo essere state cacciate da Milano dalle soppressioni del solito Giuseppe II d’Austria nel 1782. In effetti, fin da un secolo prima di allora, le monache, seguaci della mistica (e dottore della chiesa) Santa Teresa d’Avila, risiedevano presso il loro monastero situato, tra orti e frutteti, accanto a quello dei Padri Carmelitani lungo l’attuale via della Moscova. Oggi l’antica chiesa, prima utilizzata dalla Manifattura Tabacchi e poi da vari eserciti di passaggio, è stata trasformata in videoteca mantenendo però l’originale dedicazione ai santissimi Giuseppe e Teresa. La solita Milano dove passato e presente si fondono e si accavallano nei modi più inconsueti.

Al loro secondo approdo a Milano ai primi del Novecento, le Carmelitane furono in un primo tempo ospitate nella fatiscente Villa del Restocco in attesa dell’ultimazione del nuovo monastero, con annessa chiesa, al Portello. La costruzione del nuovo convento fu resa possibile grazie ai finanziamenti della nobildonna siciliana principessa Maria Paternò che era diventata suora carmelitana dopo venticinque anni di matrimonio. E fu proprio in quel periodo, cioè tra il 1923 e 25, che ebbe luogo la canonizzazione della monaca carmelitana Teresa di Gesù Bambino. E quale miglior occasione di dedicarle la prima chiesa in Italia? Poi la principessa Paternò ci mise del suo disegnando sia la pianta dell’edificio che le decorazioni interne, compresi gli schizzi di tutti i dipinti. E il lavoro risultò così ben fatto che persino il Cardinale Schuster in visita la definì “bella come un gingillo”.

Chiesa di Santa Teresa - interno - Wilma Viganò

Perfettamente restaurata nel 1979 dall’emerita scuola del Beato Angelico, oggi la chiesa esibisce una facciata nel tradizionale stile neoromanico molto in voga in quegli anni. L’interno è a tre navate e conduce all’abside affrescato da un gigantesco murale con uno sciame di angeli rivolti verso una statua in marmo di Santa Teresina scolpita da Giannino Castiglioni, l’autore, tra tanto altro, del monumento ai Martiri di piazzale Loreto e del San Francesco della fontana di via Moscova.

Da ammirare le luminosissime volte celestiali della navata centrale anch’esse decorate con affreschi di angeli svolazzanti ed alternati a sedici grandi quadri dipinti lungo le pareti che rappresentano la vita di Santa Teresa, una sequenza definita “la Piccola Via”. Perfette nei dettagli sono pure tutte le cappelle laterali a celebrare gli aspetti più evocativi della vita carmelitana. Da segnalare anche l’elegante e sinuoso pulpito in legno traforato, i confessionali con lunette affrescate, e l’ultima cappella sulla destra che ospita le spoglie della Santa cui è dedicata la chiesa.

L’ultima cappella a sinistra è mancante essendo stata sostituita da un portale con affresco che rappresenta Gesù a colloquio con la Samaritana. Questo per consentire l’accesso alla sacrestia e permettere il passaggio delle monache, che vivono in strettissima clausura, alla chiesa. Nella sacrestia infine spiccano la sobria ruota velata di cui ho parlato in apertura e la porta che conduce al silenzio delle celle e del chiostro dominato al centro, non dal tradizionale pozzo, ma dal possente simbolo del Carmelo. Per “meditare giorno e notte la Legge del Signore” nella solitudine e nel silenzio.

Un mondo a parte.

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