Piazza Piccoli Martiri di Gorla e via Bellotti
Mi rendo conto che parlare oggi di monasteri di clausura mi fa apparire molto fuori del tempo, ma tutto sommato l’idea – dopo la clausura che abbiamo tutti sperimentato causa Covid – non è forse del tutto peregrina. Bene, sappiate che nella sola diocesi di Milano ancor oggi esistono e sono attivi venti conventi di clausura: quattro maschili e sedici femminili. Se poi consideriamo la sola area urbana milanese, cioè Milano città, sono tuttora in attività ben quattro ordini religiosi di suore di clausura. Ed è di questi conventi che vorrei parlarvi perché, anche se ci è proibito l’accesso al monastero vero e proprio (ma non del tutto, oggi le regole sono un po’ più elastiche), possiamo tranquillamente visitare le chiese che ne ospitano le funzioni religiose. Un’antica tradizione che risale al Medio Evo per permettere al popolo la “comunione di preghiera” con le Serve del Signore.
Ma cominciamo dal nome. Il termine “clausura” deriva dal latino “claudere”, cioè chiudere, intendendo con ciò la regola che disciplina l’ingresso e l’uscita per alcuni ordini religiosi in uno spazio chiuso. Per gli uomini la clausura è solo passiva (che vuol dire che non è consentito l’ingresso alle donne), mentre per le donne (e vai con la differenza di genere!) è sia attiva che passiva, cioè nessuno può entrare in convento, sia esso uomo o donna, così come è vietata l’uscita delle monache da convento stesso. Salvo permesso vescovile. Insomma proprio chiuse dentro. Prigione o rifugio? A ciascuno di voi l’ardua sentenza. Io mi limito a segnalarvi questi incredibili luoghi milanesi ricolmi di storia e di fede, di umanità e di bellezza.
E direi di cominciare il nostro giro dalle Clarisse, suore di clausura per eccellenza. Ne abbiamo già parlato in passato ma mi sembra opportuno riproporle in questo contesto. Alcune Clarisse si stabilirono a Milano sin dal 1224, subito dopo la costituzione del loro ordine ad Assisi. Stavano originariamente dalle parti di via S. Sofia ma un buon numero di altri conventi sorsero nei secoli anche in altre parti della città, da via Lanzone a via del Gesù. Questo sino al 1782 quando Sua Maestà Giuseppe II decretò la chiusura di tutti i monasteri di clausura mettendo fine a 337 anni di vita contemplativa, e alla conseguente presenza delle Clarisse in città. L’idea di farle tornare a Milano venne, negli anni ’30 del Novecento, ai padri francescani Agostino Gemelli ed Enrico Zucca, i fondatori dell’Università Cattolica. L’intenzione era quella di creare nella città, sede di industrie e commerci, un’oasi di vita ascetica, santa e di preghiera.
Fu così che, nel giugno del 1944 in pieno tempo di guerra, cinque Clarisse lasciarono Assisi per Milano, ma si ritrovarono a girovagare per qualche anno in Brianza in attesa di una nuova sede in città. Dove però, nel frattempo, era stato individuato un luogo per la costruzione del convento: a Gorla, lungo la Martesana, al posto di una ormai fatiscente villa settecentesca per la villeggiatura. L’incarico per la progettazione della nuova struttura venne affidato all’allora onnipresente Giovanni Muzio, al quale venne posto un tema a dir poco arduo: costruire una dimora per suore dedicate alla preghiera, al silenzio e alla contemplazione a cento metri da viale Monza e di fianco ad un raccapricciante ricordo di guerra come la strage dei Piccoli Martiri di Gorla. E il Muzio se la cava alla sua maniera. Nel 1958 viene inaugurata una cittadella, perimetrata da alte mura, i cui orti e giardini interni, invisibili, corrono lungo il canale e con una chiesa che dà sulla piazza aperta al pubblico, chiesa dove si può a tutt’oggi godere dei sublimi canti gregoriani delle Clarisse.
L’unità stilistica della struttura è in puro stile Novecento: molto essenziale, in mattoni a vista, con pareti sobrie dove prevalgono i pieni. La cappella è cadenzata da aperture alte e strette in vetrocemento, incolori per chi le vede da fuori, ma colorate internamente in modo da filtrare la luce in tanti diversi toni di giallo, azzurro, rosso e viola. Entrando appare immediatamente l’altare laterale, dedicato ai Santi Innocenti di Gorla, con un bell’affresco della Madonna con i bambini nella parte superiore, e la strage degli innocenti di Erode in quella inferiore. Ai lati due sculture lignee di San Francesco e San Bernardino. L’altare maggiore – protetto dalla cancellata della clausura – è molto semplice ma evidenziato dai marmi coloratissimi dell’arco di trionfo, mentre il leit-motif grafico di tutto l’ambiente è sottolineato dal soffitto e dal coro sul retro, riservato alle monache che seguono le funzioni pubbliche (pare ce ne sia uno molto più grande all’interno del convento).
Secondo una simpaticissima e vetusta suorina con la quale ho avuto l’onore di parlare, risulta che il Muzio si fosse addirittura dimenticato di progettare il chiostro, correndo poi ai ripari con una copertura rotondeggiante attorno all’albero più antico del giardino (“A me la me par una balera pussé che un chiostro...”). Pare fosse anche parecchio permaloso circa il suo lavoro. Gli avevano infatti chiesto un leggero allargamento del coro (“Eravamo tante allora...”), ma lui la prese male e si limitò a restringere un ripostiglio. Oggi le suore, che continuano a pregare e a cantare in purissimo gregoriano, hanno un’intensa attività pastorale (ritiri e incontri di preghiera aperti al pubblico), ma anche manufatturiera (ceri, lavori in cuoio, biglietti e pergamene) commissionabili ed acquistabili da tutti. Insomma, come sempre, “Ora et labora”.
Il secondo monastero, ma soprattutto la seconda chiesa che vi invito a visitare è quella delle Benedettine di via Felice Bellotti 10, a due passi da Porta Venezia. Tanto per cominciare non potete senz’altro mancare il monastero, eretto a fine ‘800, che è letteralmente faraonico anche se dall’esterno non sembra proprio un monastero. Venne ricostruito per volontà del Cardinale Schuster (anche lui benedettino ma non di clausura) dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale, e sino a fine Novecento ospitava un’ottima scuola per fanciulle, dalle elementari al liceo. Chiusa la scuola (per ragioni economiche immagino), la struttura era stata trasformata in centro di preghiera. Vi si svolgevano ritiri spirituali, corsi biblici, lezioni di ebraico, scuole di preghiera e cultura monastica, canti gregoriani… Oggi – udite! udite! – dopo che le monache si sono trasferite in un’ala del convento, l’immensa struttura è stata acquisita da Dolce&Gabbana, che la stanno trasformando nella sede mondiale del loro business della cosmetica che darà lavoro a 300 dipendenti. “Abbiamo lavorato in pieno accordo con le Madri Benedettine che ci hanno aiutato moltissimo” ha dichiarato il CEO della Società. Indubbiamente i tempi cambiano e Milano è sempre lì a far da battistrada.
La chiesa però, ufficialmente denominata San Benedetto al Monastero, è sempre lì. In stile neogotico, con facciata in mattoni rossi a vista, che spicca nel grigiore degli edifici milanesi. Ne è autore un personaggio incredibile, tale Spirito Maria Chiappetta, un ingegnere-architetto-sacerdote che meriterebbe una puntata a parte, e che ha messo mano ad un numero incredibile di chiese milanesi del secolo scorso. Si dice che la facciata di San Benedetto sia rimasta incompiuta, per via che si son messi a litigare sul progetto, ma a me pare che vada bene così. In ogni caso l’esperienza che vi invito a sperimentare è l’atmosfera interna, soprattutto se la visitate quando non vi è alcuna funzione in corso. Sarete probabilmente soli, e noterete subito come l’altare sia posizionato lateralmente rispetto al portale d’ingresso e alla navata dei fedeli, e come sia invece rivolto verso una cancellata. E al di là di questa cancellata intravvederete almeno una delle monache di clausura raccolta in silenziosa preghiera: sta vivendo, alternandosi con le consorelle, la missione dell’adorazione perpetua (e sottolineo perpetua, cioè 24 ore su 24) dell’Eucaristia, una pratica che affonda le sue radici nel tempo e che è affascinante ritrovare ancor oggi nel bel mezzo della frenesia di una grande città.
Architettonicamente la chiesa è piccola ma con una sua fascinazione, puntellata com’è dalle svettanti e coloratissime vetrate neogotiche da cui traspare la giusta dose di luce – o di oscurità – che favorisce la meditazione. Le decorazioni sono limitate: una Pietà di medie dimensioni ed un ritratto di Caterina Brugoria, una monaca benedettina morta in odore di santità nel monastero di Santa Margherita nel 1529, i cui resti furono traslati nel coro di via Bellotti prima di riposare definitivamente in Duomo.
E con ciò propongo di chiudere la passeggiata odierna augurandomi di ritrovarvi alla prossima puntata per scoprire insieme gli altri due conventi di clausura di quell’incredibile scrigno pieno di sorprese che è Milano.
Comments