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  • Immagine del redattoreAlberto Pandiani

Malattia come risorsa


Il successo più inaspettato e clamoroso della storia della letteratura italiana si è verificato grazie alla tubercolosi. Negli anni è capitato che opere prime di autori per così dire “attempati” avessero un successo clamoroso ma, tutto sommato, si trattava di personaggi già conosciuti, magari in altri campi, che affrontavano per la prima volta un romanzo. Si pensi, ad esempio, al maggiore best seller italiano, Umberto Eco: già famoso come professore universitario di semeiotica, saggista irriverente e anche autore televisivo, nel 1980 a quasi 50 anni scrive “Il nome della rosa”, che negli anni venderà in tutto il mondo circa 50 milioni di copie, tradotto in oltre 40 lingue. Oppure il 52enne Giorgio Faletti che nel 2002 debutta con “Io uccido” ma è già noto come comico di cabaret, e come cantautore aveva conquistato il secondo posto al Festival di Sanremo. Ma anche Camilleri, altra firma pluripremiata, tradotto in 30 lingue e i cui libri hanno venduto circa 10 milioni di copie, malgrado abbia raggiunto la fama a 70 anni suonati, tutto sommato non era un parvenu: era infatti già stato regista, attore e autore televisivo.

Gesualdo Bufalino

Ma nel 1981 il premio Campiello va ad un romanzo iniziato 30 anni prima, ripreso 20 anni dopo e pubblicato quasi per sbaglio da un pensionato siciliano 61enne: Gesualdo Bufalino.

Andiamo con ordine. Gesualdo Bufalino nasce a Comiso, in provincia di Ragusa, nel 1920 e passa la maggior parte della propria vita proprio in questo angolo di Sicilia. Unica parentesi che si concede: l’università di Catania per studiare Lettere e Filosofia, oltre a una toccata e fuga a Roma perché, da studente liceale modello appassionato di letteratura latina, aveva partecipato e vinto il “Premio letterario di prosa latina per cui viene premiato a Palazzo Venezia dal duce in persona.

Si diceva dell’università. Nel 1942 deve interrompere gli studi perché chiamato sotto le armi e l’anno dopo, con l’armistizio, riesce avventurosamente a sfuggire ai soldati tedeschi in Friuli nascondendosi da amici emiliani. L’anno successivo, quindi a fine ’44, si ammala di tubercolosi e viene ricoverato prima a Scandiano e poi, a guerra finita, in un sanatorio a Palermo (quello che oggi è l’Ospedale Ingrassia).

Durante il ricovero a Scandiano ha a disposizione una biblioteca che, per lui appassionato di letteratura, si rivela una benedizione, mentre a Palermo scrive qualche poesia e alcune prose per un paio di riviste.

Nel 1947, finalmente guarito, si può laureare in Lettere proprio a Palermo e tornare a Comiso per insegnare, fino alla pensione, prima a Modica e poi all’Istituto Magistrale di Vittoria, il paese vicino a casa.

E qui potrebbe finire la storia di Gesualdo Bufalino che, colpito da guerra e malattia, ha vissuto il destino di molti altri italiani dell’epoca. Ma non è così perché il nostro non è proprio un personaggio qualunque: tanto per cominciare è un vorace lettore poliglotta; poi un appassionato di musica classica e jazz, e anche un ottimo giocatore di scacchi; infine non si perde neanche un film proiettato nel piccolo cinema di Comiso. E ogni tanto scrive.

Nel 1950 decide, quasi per gioco, di lanciarsi nell’avventura di stendere un romanzo, “Diceria dell’untore, in cui racconta la storia semiautobiografica di un reduce di guerra, ricoverato per tubercolosi in un sanatorio a Palermo. Ma il risultato non lo convince e così si ferma subito dopo la fine della prima stesura e lo chiude in un cassetto.

Dopo più di venti anni, nel 1971, decide di riprendere in mano il manoscritto e lo termina. Ma poi lo rimette nel cassetto.

Nel frattempo, data la passione per la letteratura e la conoscenza delle lingue, pubblica alcune traduzioni di opere minori francesi e spagnole, e scrive una lunga introduzione al libro fotografico “Comiso ieri. Immagini di vita signorile e rurale”, pubblicato da Sellerio nel 1978.

Colpita dalle righe scritte da Bufalino, Elvira Sellerio in persona decide di conoscere il personaggio e, anzi, fa di più: gli chiede se, per caso, non ha qualcosa di suo da dare alle stampe. Risposta: “No! Però ho fatto qualche traduzione…”, traduzioni che in effetti vengono subito pubblicate proprio da Sellerio.

Ma l’editrice non molla e insiste, anche supportata da Leonardo Sciascia, di cui Bufalino è amico, e così nel 1981 questi si arrende, apre il cassetto che custodisce la “Diceria” e le mani dell’editrice ricevono il manoscritto.


Copertina di "Diceria dell'untore". Foto: goodreads.com
@goodreads.com

Quello che succede è, come detto in apertura, il più inaspettato e clamoroso caso della storia della letteratura italiana che fa vincere al debuttante pensionato 61enne il Campiello e lo convince, ormai smessi i panni di insegnante, a diventare scrittore a tutti gli effetti. E mica uno scribacchino qualunque: dopo la “Diceria”, infatti, pubblica più di due dozzine di opere e Le menzogne della notte”, romanzo dell’88, vince il Premio Strega. Collabora saltuariamente anche con diversi quotidiani e periodici, tra cui Corriere, Repubblica, L’Espresso, Il Messaggero e La Stampa.

Nel 1990 “Diceria dell’untore” diventa anche un film. Regia di Beppe Cino e cast di tutto rispetto con Remo Girone, Franco Nero, Vanessa Redgrave e Lucrezia Lante Della Rovere. Ma di cosa parlano libro e film?

Fondamentalmente si tratta delle memorie del tempo passato in sanatorio da parte di un reduce di guerra. Racconta i personaggi incontrati e la vita quotidiana, facendo una sorta di autoanalisi per vincere i sensi di colpa che, si capisce dalle descrizioni, lo tormentano prima in quanto malato di tubercolosi e poi perché sopravvissuto. Bufalino scrive: “Ma se di tanti io solo, premio o pena che sia, sono scampato e respiro ancora, è maggiore il rimorso che non il sollievo, d’aver tradito a loro insaputa il silenzioso patto di non sopravviverci.”


Locandina del film "Diceria dell'untore". Foto: imdb.com
@imdb.com

Non si sa quanto sia inventato e quanto sia invece un racconto autobiografico, ma poco importa! Ciò che davvero interessa è la capacità dello scrittore di raccontare ambienti e avvenimenti, anche tragici, con chiarezza e senza compiacimento. Da appassionato di cinema ci spiega le situazioni in modo che il lettore possa quasi vederle man mano che procede nella lettura e tutto questo viene fatto utilizzando una prosa anomala, quasi antica, con continui richiami o accenni ad argomenti e soggetti delle più disparate sfere della conoscenza senza, però, risultare pesante o contorto: la lettura è sempre scorrevole e il libro viene letto in men che non si dica.

Il motivo della stesura dell’opera, poi, ce la dice lui stesso intervistato dall’amico Leonardo Sciascia alla presentazione del libro: M’importava esorcizzare quell’esperienza; ma soprattutto mi urgeva coagulare eventi e persone intorno a un centro di parole che avevo dentro.”

“Mi urgeva”, che bella espressione!

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