Quanto a soprannomi, i milanesi - si sa - sono un po’ irriverenti. Dalla Ca’ de Ciapp alla Ca’ dell’Oreggia, dal San Giuan né pù né men al Cinq e tri vott e non sto a tradurre perché dovrei anche raccontare le relative storie…ma chi ha orecchie per intendere, intenda. Comunque nonostante Milano sia la patria dei bauscia, qui si usa ridimensionare, sdrammatizzare, riportare tutto coi piedi per terra. È successo anche nel 1871 quando i passanti che transitavano per via Monte di Pietà si son visti apparire davanti per la prima volta la nuova sede della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, ispirata nientepopodimeno che alle grandi banche fiorentine del Rinascimento. Troppa grandeur per i gusti sobri dei milanesi che hanno subito pensato a rimetterne in riga le ambizioni ribattezzandola Ca’ de Sass, cioè casa dei sassi.
In effetti la definizione è, come quasi sempre succede in questi casi, appropriata.
E questo per via del bugnato, cioè la lavorazione a blocchi di pietra sovrapposti che ne orna le facciate e che ricordano molto da vicino quelle di Palazzo Pitti e Palazzo Strozzi a Firenze. Costruita tra il 1868 e il 1871 su progetto dell’architetto Giuseppe Balzaretto (un professore di Brera specializzato in giardini all’inglese), l’imponente palazzo, che si estende per ben 3.600 metri quadri per ciascuno dei tre piani fuori terra, intendeva esprimere le ambizioni della città di diventare la capitale economico-finanziaria del nuovo Regno d’Italia. E l’edificio - che si articola attorno ad un cortile centrale tra via Monte di Pietà, via Romagnosi e via Andegari - trasmette indubbiamente una percezione di solidità e monumentalità, ed anche di sicurezza e di inviolabilità. Lo stile architettonico è, per così dire, eclettico tendente al rinascimentale ma tant’è: la Ca’ de Sass fa la sua figura!
Va detto che il primo progetto del Balzaretto prevedeva una ristrutturazione del preesistente palazzo del Genio Civile, ma appena ci misero mano fu chiaro che era totalmente irrecuperabile e si decise quindi di demolire il tutto. E benedetta fu la demolizione perché nel corso degli scavi per gettare le nuove fondamenta della banca vennero alla luce i resti della misteriosa chiesa di Santa Maria d’Aurona con annesso convento, permettendo così il recupero di reperti risalenti addirittura all’epoca romana e carolingia, reperti che oggi fanno bella mostra di sé nei musei del Castello Sforzesco. Oltre ad un torre di cinta di epoca romana, vennero infatti ritrovati un centinaio di frammenti scultorei in pietra d’Angera che gli storici milanesi concordarono come appartenenti ad un’antica chiesa attribuita ad un monastero benedettino di età longobarda (parliamo di anni tra il 740 e il 720, senza il mille davanti). Secondo la tradizione il convento era stato fondato in onore di Aurona, figlia di Ansprando duca d’Asti, che era stata orribilmente violentata e mutilata nel volto dal rivale del padre, il duca di Torino Ariberto II. Alla poveretta, a cui vennero asportate palpebre, naso e orecchie, giunse in aiuto il fratello, il vescovo Teodoro II, che la riparò in un convento a lei dedicato. Il tutto doviziosamente riportato per la prima volta verso la fine del 1200 nella “Cronaca” di Goffredo da Bussero, uno dei primi storiografi milanesi, e poi ripresa da altre cronache successive. Insomma, brutta storia.
Oggi la banca costruita al posto del convento è di proprietà del gruppo Intesa San Paolo ma giustamente mantiene scolpiti nelle decorazioni della facciata neoclassica gli stemmi delle sedi originarie della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, ai tempi molto diffusa sul territorio e tuttora tra i maggiori azionisti del gruppo col nome di Fondazione Cariplo. Le insolite terrazze agli angoli dell’edificio hanno la funzione di stemperarne la massa compatta, peraltro voluta a significare la solidità dell’Istituto. L’organizzazione distributiva del palazzo si sviluppa attorno al cortile centrale al quale si accede da via Monte di Pietà tramite un suggestivo atrio che evoca spontaneamente una cassaforte e che conduce all’imponente Salone d’Onore, restaurato quest’ultimo a metà degli anni Cinquanta dall’architetto Reggiori, che già aveva dato buona prova di sé occupandosi del ripristino di parti della basilica di Sant’Ambrogio e del ponte coperto di Pavia.
In ogni caso, a parte il soprannome un po’ irriverente, l’architettura del palazzo fu molto apprezzata. Re Vittorio Emanuele II, che la inaugurò, la definì “uno dei più belli edifici della moderna architettura” e i dirigenti della banca lo designarono come modello di riferimento per le future filiali tanto che lo “stile cassa di risparmio” può facilmente essere riconosciuto in parecchi istituti di credito sparsi non solo in Lombardia, ma anche in Veneto, Toscana ed Emilia.
Ma lasciamo la banca e, sul retro, proprio all’incrocio tra via Andegari e via Romagnosi, soffermiamci ad ammirare una delle 74 fontane pubbliche di Milano.
Non moltissime considerate le dimensioni della città, ed alcune di loro pressoché sconosciute.
La fontana di via Andegari ha un secolo circa. Fu infatti realizzata nel 1928 quando il seicentesco palazzo Confalonieri, dimora di una delle più nobili casate milanesi, venne acquisito dalla vicina Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde in piena espansione per farne la propria sede di rappresentanza. La ristrutturazione della zona fu radicale. Il palazzo venne sventrato (si salvò solo la facciata) e a deliminarne l’ingresso sorse questa insolita fontana incorniciata in un tempietto dalle linee classiche. L’idea del progetto e la sua realizzazione portano la firma dell’architetto Alessandro Minali, mentre la parte “artistica” venne affidata allo scultore Salvatore Saponaro, un artista leccese emigrato a Milano e specializzato in opere sacre.
C’è da dire che la cosiddetta “Fontana dei Tritoni” ha ben poco di sacro: il suo assetto prevede infatti una grande conchiglia in pietra sorretta da due Tritoni (cioè la controparte maschile delle Sirene), mentre le due figure allegoriche nelle nicchie laterali stanno a rappresentare gli emblemi della Cassa di Risparmio. A destra c’è la Beneficienza con la cesta di frutta e la scritta “Munifice donare”, mentre sulla sinistra è rappresentato il Risparmio, con in mano un salvadanaio e la scritta “Tute servare”.
E proprio quel salvadanaio è valso alla statua l’ennesimo irridente soprannome del popolino, cioè La dona de tre tett (La donna delle tre tette) per via di quella forma arrotondata che, in quella posizione, appare proprio come… una terza tetta! Oggi Casa Confalonieri, che scorgiamo in fondo al giardino, e stata riarredata con un buon numero di opere d’arte ed è utilizzata come Centro Congressi della Fondazione Cariplo.
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