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  • Immagine del redattoreWilma Viganò

La Storia della Rotonda

La destinazione che vi propongo oggi non è niente di nuovo. Quasi tutti i milanesi ci sono passati accanto chissà quante volte, e quelli che non l’hanno fatto l’hanno senz’altro sentita nominare e sanno dov’è (che, essendo molto grande, è un utile punto di riferimento). Credo però che siano pochi quelli che l’hanno visitata e ancor meno, ci scommetto, quelli che ne conoscono la storia. Mi riferisco alla Rotonda della Besana, che, collocata com’è, in un’area di grandissimo scorrimento tra Porta Vittoria e Porta Romana, è difficile mancarla.

In effetti tutto sembra contribuire a creare qualche confusione attorno a questo possente complesso circolare. A partire dal nome. La definizione abituale “Rotonda della Besana” farebbe infatti giustamente pensare ad una signora Besana. Ma la definizione esatta è “Rotonda di via Besana” visto che ci si riferisce alla via su cui si affaccia l’ingresso, via dedicata a tale Enrico Besana, volontario garibaldino di tre guerre e amministratore con Giuseppe Finzi del fondo fucili per la spedizione dei Mille. Ma tant’è: il linguaggio corrente ha fatto cambiare sesso anche ad un rude soldato!

Ma torniamo al nostro monumento che nel corso dei secoli ha subito un buon numero di metamorfosi, e non è detto che ce ne possano essere ulteriori in futuro. Di certo c’è solo l’inizio: era un cimitero. Ai suoi tempi il più grande di Milano creato per dar sepoltura agli ospiti della vicina Ca’ Granda, ovvero l’Ospedale Maggiore di Milano voluto a metà del Quattrocento da Francesco Sforza e da sua moglie Bianca Maria Visconti. E se volete saperne di più su questa benemerita istituzione vi rimando alla puntata n. 34 di A spasso con Wilma nel corso della quale vi accompagno in via Festa del Perdono. Inizialmente gli sfortunati defunti dell’ospedale, quelli che non ce la facevano a guarire, venivano tumulati in un cimitero, coperto per i ricchi e scoperto per i poveri, chiamato popolarmente La Brugna, cioè la cantina dove si manteneva il vino in fresco e, per traslazione, loculo o camera mortuaria. Ancor oggi si dice “andà in brugna” a significare “andare all’obitorio”, luogo fresco e buio. E la brugna era opportunamente collocata nell’area dove sorge tuttora Santa Maria Annunciata, la chiesa dell’ospedale, cioè in testa al secondo cortile progettato dal Richini che allora si affacciava sul Naviglio, ma che oggi si è trasformato in via Francesco Sforza.

Ma dopo qualche tempo, la brugna (che ricordiamo per i derelitti era a cielo aperto) si rivelò insufficiente a svolgere le proprie funzioni, e giusto verso la fine del Seicento i deputati dell’ospedale furono subissati da incessanti proteste degli abitanti della zona stufi di sopportare i miasmi dell’antico cimitero. Venne così deciso l’acquisto dalla famiglia Stella di un vasto terreno, situato fra la chiesa di Santa Maria della Pace e i bastioni spagnoli, da destinare alla costruzione di un nuovo, grande luogo di sepoltura nella zona, non distante dall’ospedale e soprattutto raggiungibile via acqua, cioè lungo il Naviglio, per un più efficiente e dignitoso trasporto delle salme. Tra l’altro per facilitare le operazioni venne costruito un nuovo ponte sul Naviglio e di quest’opera è tuttora visibile la “Porta della Meraviglia” sul retro della Ca’ Granda lungo via Francesco Sforza.

L’incarico per tutto il complesso, che secondo tradizione doveva comprendere una cappella centrale, venne affidato nel 1694 ad Arrisio Arrigoni che adottò uno stile architettonico tardo barocco. Tutto procedette per il meglio e dopo solo tre anni iniziarono le prime inumazioni. E a un certo punto, e siamo nel 1719, a qualcuno viene l’idea di trasformare la cappella in chiesa vera e propria, opportunamente dedicandola a San Michele Arcangelo, l’angelo guerriero che sconfigge il demonio e che sarà al nostro fianco nel momento del trapasso e nel giorno del Giudizio Universale.

Innalzata però la chiesa, come riferiscono le cronache dell’epoca, “cominciò a entrare acqua ne’ sepolcri, e un puzzo orribile a sortire da’ medesimi” e l’architetto nel frattempo subentrato all’Arrigoni, cioè Francesco Croce, venne giustamente coinvolto per una soluzione del problema. Soluzione che venne trovata a livello idraulico ma che generò anche l’imponente portico ad andamento ondulato con un susseguirsi di arcate di mattoni a vista che ancor oggi possiamo ammirare. Opera resa possibile dalla generosa sponsorizzazione di un ricco mercante di sete, tale Giambattista Annone. Da allora si stima che in questo spazio vennero sepolte, sino a fine ‘700, oltre 150.000 persone.

Con l’arrivo degli Austriaci che imponevano le sepolture fuori della cerchia cittadina, il cimitero fu dismesso, la chiesa sconsacrata, il terreno più o meno ripulito, e per la Rotonda (che nel frattempo, come abbiamo detto prima, aveva preso nome della via dove è collocato l’ingresso) cominciò tutta una serie di trasformazioni di ruolo. Inizialmente Luigi Cagnola, autore dell’Arco della Pace, ebbe l’idea di trasformarla nel Pantheon del Regno Italico di cui Milano era allora capitale, ma non se ne fece niente. Venne quindi utilizzata prima come caserma, poi fienile, nonché come cronicario durante l’epidemia di vaiolo del 1870. Ad inizio del ‘900 l’area venne finalmente bonificata come Dio comanda con un incredibile ed accurato lavoro di traslazione delle salme a Musocco, lavoro scientificamente documentato dal dottor Cesare Staurenghi dell’Università di Pavia. Oggi un gran numero di crani studiati in quell’occasione li possiamo ritrovare nella collezione di antropolgia del Museo di Storia Naturale dei giardini pubblici di corso Venezia.

Finiti i lavori di ripulitura e considerato che accanto ci scorreva ancora l’acqua del Naviglio, la struttura divenne ufficialmente la lavanderia dell’Ospedale Maggiore, ruolo che svolse efficientemente sino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Seguì un periodo di totale abbandono che ebbe fine con l’acquisto di tutto il complesso da parte del Comune di Milano, che riuscì così a sottrarre l’ambitissima area alla speculazione edilizia, procedendo nel contempo, a partire dal 2010, alla sua totale ristrutturazione.

Oggi la Rotonda della Besana è sede del MUBA, il Museo dei Bambini, con scolaresche che corrono per i prati e con annessa una piacevole caffetteria dove tutti possono rilassarsi nel verde e nel silenzio pur essendo in centro città. Tutto l’impianto, esterni ed interni, vengono inoltre utilizzati per mostre ed eventi di vario genere (sfilate di moda comprese) che vi invito caldamente a visitare.

Rotonda della Besana - Chiesa - Wilma Viganò

La struttura della ex chiesa, posta al centro del porticato, è a croce greca, con cupola ottagonale e quattro sobrie facciate identiche al termine di ciascun braccio. L’interno ha mantenuto anche lui la struttura originale, che in questo caso è però molto elaborata e scenografica: a tre navate, con grossi pilastri di pietra ottagonali e curiosi capitelli decorati con raffigurazioni di teschi ed ossa tipiche del barocco e che oggi divertono molti i bambini. L’insieme, con il fitto intreccio di colonne, arcate e cupole, rimanda quasi all’architettura moresca. Ma la cosa più impattante è senz’altro il porticato: ad andamento ondulato e con un susseguirsi di volte a vela che coprono le arcate rivolte verso la chiesa, circoscrive un’area di oltre sette mila metri quadrati dove ci si può permettere una sosta di tranquillità e silenzio “via dalla pazza folla” della città.

E poi c’è l’immancabile curiosità. Se cercate nel prato, sulla destra della porta d’ingresso della chiesa, troverete una lapide con questa citazione di Alfonso Gatto “10.11.1971 - I naufraghi della paura atomica lasciano agli scampati del futuro questo testimone di pietra. E il testimone di pietra (che dicono seppellito sotto la lapide) altro non è che l’Homo Sapiens, una scultura di Pietro Cascella costituita da una testa sezionata “come una batteria d’accumulatore” e dedicata agli uomini del 3.000 o 4.000. Bah, che dire? Per lo meno l’installazione (tanto per usare un termine alla moda) sembra essere stata collocata nel suo luogo connaturale!

Nella speranza di avermi fatto scoprire qualcosa di nuovo, anzi d’antico – come direbbe il Pascoli – vi ringrazio dell’attenzione e vi do appuntamento alla prossima passeggiata.

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