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  • Immagine del redattoreWilma Viganò

Il borgo delle Grazie - 1

Oggi, signore e signori, passeggiata a cinque stelle. Vi propongo infatti quello che nel 1980 è stato in assoluto il secondo sito italiano – dopo le incisioni rupestri in Valcamonica – ad essere classificato come patrimonio dell’umanità dall’Unesco. E questo sito non è né a Roma, né a Venezia, e nemmeno a Firenze. È a Milano. Ed è il complesso - attenzione “complesso”, “totalità”, “insieme” - di Santa Maria delle Grazie, che si snoda in una sequenza di meraviglie d’arte e d’ingegno lungo corso Magenta. Tante meraviglie che risultano però forse un po’ offuscate da quella che il turismo ha fatto assurgere a star internazionale del borgo, anzi della città, e cioè “L’Ultima Cena” di Leonardo. Capolavoro assoluto beninteso, ma circondato da altrettante bellezze, storie e personaggi che credo valga la pena di andare a conoscere.

Tutto ebbe inizio nel 1463 quando il conte Gaspare Vimercati, condottiero al servizio degli Sforza – forse per mettersi in pace la coscienza insanguinata dalle imprese di guerra – fece dono di un terreno con relative casematte ed una cappelletta dedicata a Santa Maria delle Grazie ad un contingente di frati domenicani provenienti da Pavia. Iniziò così a prender forma il complesso conventuale, a partire da quello che è oggi il Chiostro dei Morti, a lato dell’ultima cappella della navata sinistra della chiesa attuale. A dirigere i lavori di tutto il monastero era stato chiamato Guiniforte Solari, che non era proprio l’ultimo arrivato essendo in forze alla Fabbrica del Duomo con la qualifica di ingegnere capo. E il Solari, grazie ad un tesoretto di 6000 scudi d’oro sempre donati dal Vimercati (che evidentemente di peccati ne aveva da farsi perdonare…) completò il lavoro nel giro di una decina d’anni. La struttura comprendeva tre chiostri, le sale del capitolo e del locutorio, la biblioteca, la sacrestia e, naturalmente, la chiesa. Quest’ultima era sviluppata secondo gli schemi del più tradizionale gotico lombardo come ne abbiamo viste tante nel corso delle nostre passeggiate: una semplice facciata a capanna in cotto (più larga che alta), e un interno con tre navate, basse e ampie, separate da colonne in pietra a delimitare sette cappelle laterali, anche loro quadrate.

Il lavoro andava benissimo ai frati, ma non venne considerato all’altezza della città dal nuovo e rampante signore di Milano, Ludovico il Moro, che aveva ben altre ambizioni. La sua intenzione infatti era quella di rivaleggiare con le più prestigiose corti italiane, soprattutto i Medici di Firenze, e all’indomani del grandioso matrimonio con Beatrice d’Este arrivò a decretare che la chiesa dei domenicani sarebbe diventata il mausoleo degli Sforza. Mentre tutt’attorno sarebbe sorto il nuovissimo borgo delle Grazie, una sorta di città “satellite” diremmo oggi, nel nuovo stile alla moda di allora, cioè quello rinascimentale. Ecco quindi l’entrata in scena dell’urbinate Donato Bramante, uno dei più straordinari interpreti del classicismo cinquecentesco, che non si fa scrupoli nel demolire coro, abside e transetto del Solari (appena terminati) per sostituirli con una tribuna e relativa cupola destinati a divenire forse i tratti in assoluto più distintivi di tutta l’architettura rinascimentale lombarda. (Ricordiamo, tra parentesi, che la furia distruttiva del Bramante si ripeterà di lì a qualche anno a Roma con la basilica di San Pietro, tanto da guadagnargli il soprannome di Mastro Ruinante).


Ma va detto che nella nuova basilica di Milano (come del resto in quella di Roma) tutto è simmetricamente perfetto: un assoluto equilibrio delle proporzioni basato sulla larghezza della navata centrale che, raddoppiata, corrisponde ai lati del presbiterio e al diametro dell’immensa cupola emisferica, la più alta di quei tempi dopo quella di Santa Maria del Fiore del Brunelleschi a Firenze. La decorazione degli interni non sarà da meno, con eleganti motivi geometrici che si alternano a disegni floreali e un buon numero di medaglioni con busti di santi.

E mentre il Bramante costruiva la cupola, nel refettorio Leonardo dipingeva su una parete “L’ultima cena” più famosa della storia dell’arte, in contrapposizione alla “Crocifissione” di Donato Montorfano, anche lui al massimo della propria espressività. Un triplete pressoché ineguagliabile nella storia dell’arte di cui parleremo più avanti.

Ma la sorte infierisce su Ludovico il Moro e, nel 1497, la giovane moglie Beatrice d’Este inaspettatamente muore a soli 21 anni per febbre puerperale, e il marito, per ricordarla, commissione un’arca tombale di famiglia, in marmo bianco, ad un altro Solari (tale Cristoforo) che raffigura entrambi i coniugi distesi a grandezza naturale sul coperchio. L’opera sta per essere terminata quando le sorti politiche del Moro volgono al peggio: la città viene invasa dai francesi e il Signore di Milano è costretto all’esilio, cosicché la splendida arca non verrà mai posta nella chiesa di Santa Maria delle Grazie alla quale era destinata. Oggi, per poterla ammirare, occorre prevedere una breve trasferta alla Certosa di Pavia. Ma ne val la pena, credetemi!

Prima di partire per l’esilio in Francia, Ludovico il Moro era però riuscito ad impostare, se non a portare a termine con la complicità del Bramante, un’altra grandiosa appendice dei suoi progetti architettonici. Dal lato sinistro del presbiterio di Santa Maria delle Grazie si accede infatti ad un piccolo ma armoniosissimo chiostro quadrato, caratterizzato al centro da una deliziosa fontana circolare ornata da quattro statue in bronzo raffiguranti delle rane che sputano acqua (anche se l’idea delle rane pare non sia attribuibile al Bramante). Val comunque la pena di visitarlo, soprattutto in primavera, per godere della fioritura delle magnolie e, in tutte le stagioni, per assaporare il colpo d’occhio più suggestivo dell’immensa cupola. Sotto il porticato si apre inoltre quell’altra gemma, purtroppo solitamente non accessibile al pubblico, che è la Sacrestia Vecchia.

L’ingresso avviene da una porticina sul lato nord del chiostro che porta sulla lunetta una raffigurazione di San Luigi col giglio accanto alla Madonna (il che fa pensare ad un omaggio ai nuovi finanziatori francesi) mentre all’interno si schiude un’aula rettangolare coperta da una volta a lunette dipinta con un cielo stellato, alla quale si mormora che abbia messo mano persino Leonardo. Sul fondo si staglia una piccola abside affrescata, con le facce interne dei pilastri sui quali spiccano insolite mezze figure a rilievo di Ludovico il Moro e del figlio Massimiliano. Le pareti laterali sono coperte da armadiature intarsiate a due piani, sopra le quali troneggiano una serie di dipinti con episodi del Vecchio e Nuovo Testamento. I preziosi armadi, realizzati da Padre Vincenzo Spadotto nel 1489, contenevano gli arredi sacri donati dal Moro alla chiesa. Quando poi Ludovico fu fatto prigioniero dai francesi, gli arredi furono spediti come riscatto e mai più restituiti.

E proprio dietro uno di questi armadi si cela l’ingresso all’ennesima sorpresa di questa visita: il passaggio segreto sotterraneo, oggi presumibilmente chiuso, che permetteva a Ludovico il Moro di percorrere a cavallo la strada che congiungeva i suoi appartamenti del Castello Sforzesco fino alla sagrestia.

Nel Cinquecento i Domenicani proseguirono con le decorazioni all’interno della chiesa ma, passati i francesi e arrivati gli spagnoli, a Santa Maria delle Grazie venne anche trasferita – da Sant’Eustorgio – la poco edificante sede del tribunale dell’Inquisizione.

Artisticamente la chiesa attraversò anche un periodo barocco, ma il colpo finale venne inferto dal solito Napoleone che, dopo aver cacciato i frati, trafugò il meglio delle tele (Tiziano, Gaudenzio Ferrari ed altri) ancor oggi esposte nei musei francesi. E bisognerà attendere almeno un secolo prima di assistere al ritorno dei domenicani e a tutta una serie di restauri sia pittorici che strutturali (il primo fu di Luca Beltrami) che hanno riportato tutta il complesso conventuale al suo attuale splendore.

Ma il vero miracolo ebbe luogo la notte del 15 agosto 1943 quando i bombardieri anglo-americani infierirono su Milano colpendo sia la chiesa che il convento. Furono distrutti il Chiostro dei Morti, la biblioteca e il fianco sinistro della chiesa con tutte le cappelle. Crollò anche il soffitto e il muro di Levante del refettorio, ma “L’Ultima Cena” di Leonardo, grazie ad una gabbia di tubi Innocenti e sacchi di sabbia ignifughi frettolosamente inventati per l’occasione, si salvò. Così come rimase pressoché intatta, pur senza protezione, la “Crocifissione” del Montorfano.

L’ultimo atto si chiude (per ora) nel dopoguerra con il capillare restauro del complesso abbondantemente finanziato da Ettore Conti, l’ingegnere milanese pioniere dell’energia elettrica, che affida l’incarico a Piero Portaluppi, già impegnato al ripristino della vicina Casa degli Atellani. Oggi il senatore Conti e signora riposano in pace nella cappella loro dedicata proprio in Santa Maria delle Grazie, vegliata dai domenicani che, con i loro candidi sai, volteggiano negli spazi come apparizioni da un altro mondo.

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