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  • Immagine del redattoreWilma Viganò

I gioielli insanguinati dello Zar

In una rubrica dedicata ai gioielli il minimo che possiate aspettarvi sono storie d’amore e d’avventura, storie d’arte e di potere.

E invece oggi vi stupirò con una storia “noir”, e pure parecchio cruenta: la storia dei gioielli insanguinati dei Romanov, la famiglia imperiale russa. Ma perché “insanguinati”?

Beh, per almeno due agghiaccianti motivi.

Innanzi tutto perché vennero acquisiti col denaro pubblico derivato dallo sfruttamento delle masse durante secoli di abusi e vessazioni. Ma anche perché furono lavati nel sangue dei loro proprietari che, in fuga dalla rivoluzione, cercarono di portarli con sé senza riuscire a salvare se stessi, e neppure i gioielli.

La Casa regnante di Russia era tra le più ricche e sontuose al mondo e per i Romanov i gioielli erano la rappresentazione concreta di lusso e di potere. Punto d’incontro tra l’Oriente e l’Occidente, il loro territorio era un passaggio obbligato per le vie carovaniere, particolarmente a sud in vicinanza della Persia da dove provenivano i turchesi, le perle del golfo, i diamanti e gli smeraldi delle Indie Orientali. Un’opportunità di approvvigionamento unica che durante il XVIII secolo fu pienamente sfruttata dalle zarine Elisabetta Petrovna, figlia di Pietro il Grande e, dopo di lei, da Caterina II la Grande, che commissionarono una quantità incredibile di gioielli ai più famosi orafi europei dell’epoca. A tutto ciò si aggiunsero (piove sempre sul bagnato!) le nuove scoperte minerarie in Siberia dove vennero ritrovati giacimenti di diamanti, zaffiri, smeraldi, acquamarine e pietre semi-preziose di ogni genere. Per non parlare degli immensi depositi d’ambra individuati lungo i fiumi. Insomma ogni ben di Dio!

E la mania dei gioielli non era solo prerogativa delle signore, fossero zarine o nobildonne di corte. Anche lo Zar Nicola II si dilettava a fare shopping all’estero, soprattutto a Parigi. Dove per esempio, nel corso un’incursione da Cartier, acquistò un “sautoir” di perle (cioè una collana lunga sino alla vita) costato, alla fine dell’Ottocento, 250 mila sterline. Al quale aggiunse una corona di platino e diamanti formato mignon che la Zarina portava sempre, anche in aggiunta ad altri diademi, come nel giorno delle nozze. Per non parlare della collezione di 50 preziosissime uova di Fabergé collezionate dal padre Alessandro III che meriterebbero una storia a parte.

Ma nel mezzo di tutto questo sfavillio suonarono le trombe della rivoluzione bolscevica, l’imperatore fu costretto ad abdicare e venne fatto prigioniero con tutta la sua famiglia.


Comprensibile dunque che, nell’aprile del 1918, la zarina Alexandra Feodorovna (in foto, Wikipedia), considerato il mal partito, si attivasse per mettere al sicuro almeno parte dei gioielli di famiglia. Ma come sfuggire alla strettissima sorveglianza dei militari che controllavano la loro residenza di Tobolsk dove i Romanov erano praticamente trattenuti agli arresti domiciliari? La scelta cadde sulle suore del vicino monastero di Ivanov, che avevano il permesso di assistere la famiglia reale, cosicché l’imperatrice affidò loro gran parte dei suoi preziosi con l’incarico di nasconderli in un luogo segreto.

Quando le suore vennero a conoscenza dello sterminio della famiglia Romanov, si fecero prendere dal panico ed affidarono il tesoro ad una consorella perché lo affidasse a sua volta ad una persona di fiducia lontana dal monastero.


Fu così che i gioielli passarono di mano in mano per finire ad un venditore di pesce, fornitore del convento, persona considerata da tutti mite e rispettosa. Ma il pover’uomo, forse in preda ai fumi dell’alcool, si vantò in pubblico di essere in possesso di gioielli di indicibile valore e venne denunciato alla Polizia che, recatasi nel suo tugurio, trovò effettivamente quanto era stato riferito. Si trattava di 154 pezzi tra spille, diademi, fermagli per capelli, bracciali, pendenti, croci e collane realizzati in oro o platino, con una gran quantità di diamanti, smeraldi, ametiste, corniole e acquemarine. E pure alcune monete d'oro. Possiamo essere così precisi perché il rapporto della polizia esiste ancora con tanto di elenco dettagliato di quanto venne ritrovato. Il fatto è che il rapporto non specifica cosa avvenne dei gioielli. Alcuni pezzi sono attualmente esposti al Museo del Cremlino, ma è abbastanza realistico pensare che i rivoluzionari inviassero segretamente parte della refurtiva di guerra in Europa Occidentale per essere rivenduta e finanziare di conseguenza la rivoluzione. E ciò spiega la comparsa di tanto in tanto, alle principali aste internazionali, di gioielli di quel periodo appartenuti alla famiglia imperiale russa. Anche recentemente Christie’s ha battuto all’asta per 4 milioni di dollari uno smeraldo di 75 carati che apparteneva ai Romanov dai tempi di Caterina la Grande. 

Ma il fatto più inquietante di tutta la vicenda ebbe inizio quando la famiglia reale venne avvertita che si sarebbe dovuta trasferire a Tobolsk.

Nel disperato tentativo di portare con sé il maggior numero possibile di gioielli per permettere la sopravvivenza in un incerto futuro, l’imperatrice Alessandra – secondo una testimonianza successiva di una delle cameriere personali – tentò di dissimulare preziosi di ogni genere nelle sue vesti e in quelle delle quattro figlie.

Furono scelte camiciole di tela spessa, poi indossate da madre e figlie, e su quelle vennero cuciti, avvolti nella stoffa, gioielli con brillanti, smeraldi ed ametiste. In aggiunta, le donne nascondevano sotto agli abiti collane di perle e oro. Anche i cappelli, tra la fodera e il velluto, erano ricolmi di gioielli, così come i bottoni degli abiti erano stati sostituiti da pietre preziose e camuffati con stoffa nera. Tutto ciò costituiva un peso notevole che impediva loro di muoversi e camminare normalmente, ma almeno nel corso del trasferimento riuscirono a farla franca.

L’aspetto “sanguinario” citato all’inizio è che queste corazze di gioielli furono causa di un’ulteriore ed indicibile sofferenza per le povere donne al momento della fucilazione.

Infatti le pallottole sparate dai soldati del plotone d’esecuzione rimbalzavano all’indietro senza ferirle in punti vitali. E tre di loro, quando furono portate via per essere date alle fiamme, dovettero subire un colpo di grazia nelle orecchie perché erano ancora vive.

Solo quando le spogliarono i soldati scoprirono il perché della loro tardiva morte: erano letteralmente ricoperte d’oro e pietre preziose a guisa di autentiche corazze, che le avrebbero anche salvate se…

Ma la storia non si fa né coi se né coi ma.

Oggi al Museo del Cremlino si trovano principalmente i cosiddetti “Gioielli della Corona”, cioè quelli appartenenti da sempre allo Stato ed utilizzati in occasione di cerimonie ufficiali.

I classici simboli del potere imperiale, quali lo scettro, la spada, lo scudo, lo stendardo e alcuni anelli. Questi erano stati consegnati alla polizia di Mosca alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale dallo stesso Zar perché venissero custoditi in condizioni di massima sicurezza nelle segrete del Cremlino.

E fu lì che i bolscevichi li ritrovarono quando si impadronirono del potere nel 1917.

Si resero conto del valore della scoperta ma prima di decidere cosa farne, ed eventualmente “monetizzare” il tutto, incaricarono Carl Fabergé, il più famoso orafo russo e principale fornitore dello Zar, di redigere l’ennesimo inventario.

E prevedendone la dispersione, Fabergé, con la morte nel cuore, stilò, da vero professionista, un accuratissimo elenco che impiegò ben due anni a mettere a punto.

Elenco nel quale sono annotati 25.300 carati di diamanti, 4.300 carati di zaffiri, solo (si fa per dire) 260 carati di rubini ma di ottima qualità, e poi smeraldi a iosa e migliaia di perle.


Dove sono?

Chi li possiede?

Quanto valgono?

Di quali vicende sono stati testimoni?

Chi lo sa!

Mistero, enigmi e segreti son da sempre parte del fascino dei gioielli.

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