La passeggiata di oggi ci porta alla scoperta di un quartiere residenziale non molto conosciuto di Milano: la Maggiolina, più recentemente definita anche Villaggio dei Giornalisti.
Siamo a nord della città, all’inizio di viale Zara, zona raggiungibile con la M5 lilla. Il nome del quartiere sembra derivare da un’antica cascina (oggi scomparsa) che sorgeva lungo il Seveso i cui proprietari, una famiglia di setaioli immigrati in Lombardia da Firenze, facevano di cognome Maggiolini. Un’altra scuola di pensiero attribuisce la derivazione del nome ad una produzione agricola della cascina stessa, cioè le fragole, in dialetto milanese magiòster.
Scegliete voi quale vi piace di più.
La definizione “Villaggio dei giornalisti” è ovviamente molto più recente. Risale infatti al 1911 quando Mario Cerati, caporedattore de “Il Secolo”, innescò una clamorosa polemica pubblica, in netta controtendenza, accusando l’amministrazione comunale di un’attenzione spasmodica verso il ceto operaio, trascurando totalmente le necessità della nuova borghesia nascente, ben espressa – guarda caso – dai giornalisti. L’ebbe vinta lui tant’è che nella zona, ancorché periferica tra piazza Carbonari e via Arbe, si venne a formare un’oasi di tranquillità con ville e residenze liberty-decò circondate da tranquilli giardini cintati che ancor oggi si distingue nel bel mezzo del traffico tumultuoso della città.
E la nostra passeggiata alla Maggiolina non può che iniziare dall’edificio storico di maggior rilievo di tutta la zona: la quattrocentesca Villa Mirabello che dà sull’omonima via. Era questa una delle tante “ville di delizia” o dimore di villeggiatura di personaggi legati alla corte sforzesca che, per ritemprarsi, tendevano a privilegiare le campagne più salubri, secche ed arieggiate della zona nord della città, rispetto a quelle, più afose e piatte, dell’area meridionale. E in effetti le ville lungo la vicina Martesana venivano considerate un po’ la versione milanese delle ville venete del Brenta.
Molto accuratamente restaurata all’inizio del ‘900, Villa Mirabello è tuttora circondata da un ampio parco ricco di alberi secolari e la sua struttura in cotto è un perfetto esempio dell’architettura lombarda del periodo sforzesco, in cui convivono gli echi del gotico cortese abbinato alle prime influenze del rinascimento toscano. Ecco quindi il loggiato sulla corte interna, le finestre ad arco acuto, i camminamenti coperti, la scala, i balconi e il porticato che si snoda tutt’attorno ad un delizioso cortile al cui centro fa bella mostra di sé una delle fontane Mangiabagaj del Beltrami raccontate nella puntata n. 46.
Su un lato del cortile si apre una deliziosa, piccolissima cappelletta (lo spazio può ospitare solo due inginocchiatoi) denominata Mater Amabilis, interamente affrescata con sciami di angeli di varie epoche attorno ad una rappresentazione quattrocentesca di un santo che innalza la croce. Sul retro della villa è ancora visibile l’hortus, purtroppo non più coltivato, e dove sopravvive un unico filare di vite.
Nel corso dei secoli la villa ha avuto nobili ed abbienti proprietari: dai Mirabello che acquistarono l’originaria cascina dai Visconti, al ricchissimo Pigello Portinari, famoso sponsor della cappella omonima in Sant’Eustorgio. Il Portinari era gestore generale delle rendite del Ducato, oltreché rappresentante dei Medici a Milano, ed ottenne per la villa l’esenzione da carichi fiscali reinvestendo probabilmente il guadagno nel suo abbellimento. A lui succedette Antonio Landriani, altro banchiere e prefetto dell’Erario milanese, che vi ospitò Ludovico il Moro durante il suo breve e sfortunato rientro a Milano. I discendenti del Landriani erano importanti esponenti del ricchissimo ordine degli Umiliati e i monaci, famosi per le loro lavorazioni di tessuti e sete, vi installarono dei laboratori. Soppressi gli Umiliati da Carlo Borromeo, la villa divenne proprietà dei Marino (quelli del Palazzo Municipale) per poi passare ai Serbelloni e ai Busca che la ricondussero all’originale vocazione agricola.
Come cascina subì un lento ma inesorabile degrado e solo agli inizi del ‘900, per iniziativa della allora proprietà, fu realizzato un importante restauro che ha riportato l’edificio all’impeccabile condizione attuale. E gironzolando per i locali interni, per lo più coperti da soffitti a cassettoni, si ritrovano le testimonianze lasciate nei secoli dai vari proprietari, come il motto “Sempre el dovere” continuamente ripetuto ed incorniciato da festoni di fiori che si intrecciano con croci azzurre e melograni. Attualmente l’edificio è sede del Patronato per i Ciechi di Guerra di Lombardia) a cui fu donata dagli ultimi proprietari, i coniugi Giuseppe e Lina Mulatti, e può essere visitata in speciali giorni di apertura pubblica.
Da Villa Mirabello il consiglio è quello di attraversare la strada e soffermarsi per una breve visita alla chiesa di Sant’Angela Merici. Eretta negli anni ’50, venne affidata dall’allora cardinale Montini alla congregazione dei Padri Sacramentini, un ordine religioso ottocentesco che dipende direttamente dalla Sede Apostolica. La dedica a Sant’Angela Merici pare sia stata sollecitata dal suo maggiore benefattore, l’onorevole Enrico Mattei, a ricordo della madre Angela. Il progetto è dell’architetto Mario Bacciocchi, designer di fiducia dell’ENI per cui ideò parecchi edifici a Metanopoli, nonché numerosi stazioni di servizio Agip.
Nell’impresa Mattei coinvolse, oltre al Baciocchi, anche un buon numero di artisti emergenti tra i quali i fratelli Giò e Arnaldo Pomodoro che realizzarono la grande croce, la mensa eucaristica in marmo verde, i candelabri in bronzo e il seggio del celebrante, così come il loro amico Nanni Valentini produsse le ceramiche che decorano la facciata. Altre curiosità. Il pregevolissimo battistero – un unico blocco in marmo rosa antico – è omaggio di un’altra famosa imprenditrice, Anna Bonomi Bolchini, mentre la grande vetrata è opera di uno dei grandi maestri vetrai del ‘900, Giovanni Hajnal, d’origine ungherese naturalizzato italiano, che realizzò vetrate per il Duomo e per l’aula Paolo VI in Vaticano. In uno degli altari laterali sulla destra campeggia un intrigante murale che rappresenta la processione ideale di chi ci ha preceduto nella fede. E ci sono proprio tutti, persino “la grande anima” di Gandhi, mentre sul fianco, un po’ defilata, è stata collocata la statua lignea della mistica francese S. Angela Merici, copia dell’originale del XIII secolo conservato in Bretagna. L’organo infine può essere considerato pienamente solidale, costruito – com’è stato – con avanzi di vari organi “d’occasione” comprese le canne risalenti a fine ‘700.
All’uscita della chiesa il consiglio è quello di proseguire per un cinquantina di metri sulla sinistra sino al semaforo di via Lepanto, da dove si potranno scorgere sul fondo le celeberrime casette a igloo. Le quattro o cinque casette sono quel che resta di uno straordinario progetto dell’architetto Mario Cavallé a cui, nell’immediato dopoguerra, venne la bizzarra idea di progettare e costruire un gruppo di stravaganti abitazioni: otto a forma di igloo (piano terra + interrato) e due a fungo (su due piani). I due funghi sono stati demoliti negli anni ’60.
Realizzate in cemento, le casette erano intese come soluzione provvisoria (poi divenuta definitiva) per alcune famiglie rimaste senza casa dopo i bombardamenti.
Il modello abitativo e relativa tecnica di realizzazione erano stati importati dagli Stati Uniti e la forma non è per nulla casuale. Il progetto prevede infatti un complesso sistema a volta formato da mattoni forati disposti a losanghe convergenti che permettono la massima libertà nella disposizione degli spazi interni. Così ognuno si crea gli ambienti su misura, secondo i propri gusti e necessità. La superficie complessiva è di circa 45 metri quadrati sviluppati su due livelli, con seminterrato accessibile solo dall’esterno o da una ristretta botola all’interno. Spazio ideale per single (in passato risulta averci abitato Irene Pivetti) o giovani coppie senza bambini.
Per la cronaca il Cavallé, assoluto specialista di sale cinematografiche della sua epoca, era un bel personaggio. Milanesissimo, di umili origini, era emigrato in Germania per sostenere la famiglia. Chiamato alle armi durante la prima guerra mondiale, riuscì durante la leva ad ottenere la licenza in ragioneria, e al suo rientro a Milano, a conseguire in contemporanea, cioè proprio nello stesso giorno le lauree in Ingegneria e Architettura al Politecnico. Nel corso di un soggiorno negli Stati Uniti, dove si celebravano i trionfi hollywoodiani, si dedicò in maniera approfondita allo studio delle tecniche costruttive delle sale cinematografiche che mise in pratica una volta rientrato a Milano firmando un gran numero di progetti tra i quali il cinema Astra e la ricostruzione del teatro Dal Verme.
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