Quelli che mi conoscono sanno della mia predilezione a fare “churching”, cioè di andare alla scoperta di chiese possibilmente poco conosciute ma con storie particolari da raccontare. E a Milano le chiese sono tante, ma proprio tante. Pensate che solo nel Novecento ne sono state costruite più di 500 ed è quindi molto probabile trovarne una appresso all’altra, e quindi facilmente “fruibili”, come si direbbe di questi tempi, nel corso di un’unica passeggiata.
Bene, tutta questa premessa per annunciarvi che oggi vi condurrò in visita a tre chiese in via della Commenda, nella zona di Porta Vittoria, tra il Palazzo di Giustizia e il Policlinico. Fin dal Medio Evo qui esistevano complessi assistenziali concessi in usufrutto (o commenda) ad Ordini Ospedalieri di vario genere, e da qui il nome della strada. E il nostro giro inizia dal numero 37 di via della Commenda, proprio di fronte al liceo Berchet, dove, se non siete della zona, vi sfido ad individuare una chiesa. Quello che si vede infatti è la versione moderna ed elegante, quasi di design oserei dire, di una casa di ringhiera e l’unico elemento che ci può confermare l’esistenza di una Parrocchia è una spoglia croce in legno di medie dimensioni a ridosso della cancellata.
In effetti ci troviamo di fronte alla chiesa di San Francesco di Sales, un articolato complesso di locali vari, compresi alloggi, teatrino, palestra e campo da tennis coperto.
L’insolito aspetto esterno risponde in effetti al piano redatto negli anni ’60 del Novecento dall’allora cardinale Giovan Battista Montini, che chiedeva alle nuove chiese di inserirsi totalmente nel tessuto urbano della città, di essere cioè “casa tra le case”. Con l’aggiunta delle ulteriori testuali parole: “Non è tempo di fare monumenti, mosaici e decorazioni costose, è tempo di salvare con costruzione semplice la fede del nostro popolo”. E l’architetto Vittorio Gandolfi, definito un razionalista di seconda generazione incaricato di questa particolare costruzione, prese in parola il Cardinale creando un ambiente semplicissimo ma altamente scenografico che affida alla luce ogni funzione decorativa.
La chiesa è dedicata a San Francesco di Sales, un vescovo ginevrino e dottore della Chiesa che visse a cavallo tra il ‘500 e il ‘600, il cui merito storicamente più famoso fu quello di riconvertire al Cattolicesimo un gran numero di Calvinisti. E come ci riuscì? Pare componendo sintetici ed efficaci slogan di propaganda cattolica pubblicati su “manifesti” che faceva affiggere in luoghi pubblici. Un antesignano della comunicazione tanto che nel 1923 venne ufficialmente dichiarato patrono dei giornalisti. A lui si ispirò anche Don Bosco, e a lui si deve la fondazione dell’ordine monastico femminile delle suore della Visitazione le cui adepte milanesi hanno abitato, sino a pochi anni fa, l’immenso e misterioso monastero di clausura di via Santa Sofia, il cui educandato è stato frequentato per secoli dalle figlie delle nobili famiglie milanesi, compresa la figlia del Manzoni.
Ma torniamo alla nostra visita. Alla chiesa di S. Francesco di Sales si accede tramite un gioco di scale e rampe con una parete costellata di bassorilievi di Eros Pellini che illustrano le 7 opere di misericordia corporale. (il Pellini, tra tanto altro, fu autore anche delle statue delle Quattro stagioni che adornano la fontana di piazza Giulio Cesare di cui abbiamo ampiamente parlato nella seconda puntata di “A spasso con Wilma”). L’interno della chiesa, modernissimo, è molto rigoroso, quasi spoglio, con un soffitto interrotto da un grande lucernario che concentra sul bianchissimo altare sormontato da un crocefisso il punto focale di tutto l’ambiente, mentre una delle due navate laterali ospita uno spazio riservato a piccole celebrazioni. Sulla destra, di grande impatto, sono da ammirare le basse vetrate con cornice in rilievo che catturano la luce filtrandola attraverso vetri colorati. Autore delle vetrate che raccontano, con immagini coloratissime, la vita di San Francesco di Sales, è lo svizzero Willy Kaufmann, un artista del vetro che ha collaborato anche con Fontana Arte.
Usciti dalla chiesa di San Francesco di Sales, dopo pochi passi, ma proprio pochi, al numero 1 di via della Commenda, troviamo la chiesa di San Barnaba, e questa non la possiamo proprio mancare. Di stampo prettamente rinascimentale, sin dal suo lunghissimo nome (chiesa dei santi apostoli Paolo e Barnaba, santuario di S. Antonio Maria Zaccaria) denota le sue nobili origini. Non grandissima, era originariamente un piccolo convento-ospedale (in sintonia con la vocazione sanitaria di tutta la zona) che venne rilevato a metà ‘500 dai dottissimi padri Barnabiti, che aggiunsero alla denominazione della chiesa il nome di S. Paolo, a cui l’ordine è devoto, oltre a quello di Sant’Antonio Zaccaria, fondatore dell’ordine stesso. Ma, tanto per cominciare, chi era San Barnaba? Nato a Cipro pochi anni dopo Cristo da famiglia giudaica, San Barnaba sin da giovane si convertì al cristianesimo diventando attivissimo evangelizzatore in tutta l’Asia Minore. Con l’apostolo Paolo propugnò tra l’altro l’abolizione della circoncisione per i pagani convertiti al cristianesimo. Nel 53, insieme all’altro apostolo Pietro, partì alla volta di Roma dove insieme posero la fatidica “prima pietra”. Instancabile, Barnaba ripartì subito dopo per Milano dove ripeté il rito e per questo è considerato il primo vescovo della città. La leggenda narra come lungo il cammino che lo portava alla sua nuova destinazione, la neve si sciogliesse consentendo ai fiori di sbocciare. Venne ucciso nel 61 a Salamina per mano di alcuni giudei che lo lapidarono.
Ma tornando alla chiesa e ai Barnabiti, dopo alcuni tentativi di abbellimento della struttura originaria andati a male, i documenti dell’epoca riportano l’affidamento del progetto a tal “Signor Galeazzo architetto peritissimo”. Beh, l’architetto peritissimo altro non era che l’archistar dell’epoca, cioè quel Galeazzo Alessi autore a Milano di Palazzo Marino, del progetto di San Vittore al Corpo e della facciata di Santa Maria presso San Celso.
E l’Alessi, nonostante la limitata disponibilità di budget, fece del suo meglio mettendo a punto una delle tappe architettoniche fondamentali della chiesa riformata cinquecentesca. A partire dalla facciata, di impostazione classica, scandita da colonne, archi e dalle statue di S. Barnaba, S. Ambrogio, S. Paolo e S. Pietro, mentre all’interno la navata principale è scandita da tre cappelle per lato. Lo stile dell’Alessi prevedeva superfici decorate solo nelle parti superiori, ed anche qui l’attenzione è immediatamente attratta dalle complesse e geometriche decorazioni a stucco delle volte, tutte in oro su fondo bianco, che riprendono una successione infinita di motivi geometrici rettilinei, curvilinei, rosoni e disegni tipici dell’epoca. L’altare maggiore è un po’ inquietante. E’ costruito infatti attorno ad un’urna trasparente in rame dorato che ospita i resti mortali di S. Antonio Zaccaria, qui traslato dalla cripta appositamente creata per ospitarlo nel 1893 da Carlo Maciachini, l’autore del Cimitero Monumentale. I resti mortali del santo hanno capo e mani in argento, opera dello sculture Enrico Manfrini, autore tra l’altro dell’anello del pescatore di papa Francesco. Mah!
Dietro l’altare spiccano gli stalli del coro, anche questi disegnati dall’Alessi, abbastanza lineari visto che furono i primi costruiti a Milano dopo il secolo XIII. Pare siano stati portati a modello per quelli del Duomo, dove però si fecero prendere un po’ la mano realizzandoli con maggiore magnificenza. Sulle pareti ai lati dell’altare spiccano due grandiosi affreschi di 4 metri per 4 di Simone Peterzano, il pittore bergamasco maestro del Caravaggio, che illustrano episodi della vita di S. Paolo e S. Barnaba, mentre dipinti dei maggiori artisti del tardo rinascimento milanese (dal Luini al Lomazzo) sono distribuiti nelle cappelle laterali. Da segnalare, nella terza cappella di sinistra, un imponente reliquiario donato da San Carlo Borromeo ai Barnabiti il cui interno è suddiviso in 294 piccoli scomparti contenenti reliquie di martiri e santi individuabili ognuna da un piccolo cartiglio.
Ma la meraviglia della chiesa è la sacrestia, decoratissima, che raggiungiamo sulla destra dell’altare maggiore. Qui è conservato l’incredibile vecchio altare in ebano rivestito con guscio di tartaruga marina e ornamenti in argento. Un unicum posto al centro di una stanza quadrangolare con volta e pareti completamente affrescate dai fratelli Giovanbattista e Gerolamo Grandi, morti entrambi nel 1718, che hanno segnato il passaggio dalla pesantezza del barocco alle forme più leggere ed aggraziate del barocchetto. Prima di raggiungere l’uscita, soffermiamoci lungo un piccolo corridoio dove è esposto, in una ricca cornice di bronzo dorato, un ritratto seicentesco di S. Antonio Zaccaria con un giglio tra le mani. Ritratto che, secondo provate testimonianze, sarebbe stato al centro di un fatto miracoloso. Nel 1747 infatti, l’effige sarebbe stata vista da alcuni fedeli muovere il braccio destro in segno di benedizione. Da quel momento il giglio che era diritto sul fianco sinistro, rimase reclinato sul braccio. E così è rimasto.
Usciti dalla chiesa di San Barnaba, per raggiungere la terza chiesa del nostro itinerario, semplicemente attraversiamo la strada ed entriamo alla Mangiagalli, la celeberrima clinica ostetrica del Policlinico dove risultano essere nati, dall’inizio del Novecento, una vagonata di bambini milanesi. Dall’ingresso giriamo a sinistra e, dopo aver percorso un lunghissimo corridoio, ecco apparire un’infilata di porte neogotiche che danno accesso ad una grande, coloratissima ed accogliente cappella. È la chiesa, nomen omen, dei Santi Innocenti dove troviamo in preghiera mamme col pancione, ma anche qualche papà, nonni e zii. L’ambiente è grande, luminoso e sereno, ma soprattutto reso quasi fantasmagorico da un incredibile ciclo di affreschi del 1956 tutti sul tema della natività e della famiglia. Ne è autore Antonio Martinotti, pavese, uno degli ultimi affreschisti d’arte sacra di scuola lombarda, un mestiere d’arte oggi purtroppo pressoché scomparso. Oltre che a vari episodi della vita di Gesù e della sua famiglia, enfasi particolare è ovviamente riservata al battistero (che chissà quante cerimonie ha ospitato!) ulteriormente arricchito da una grande, quasi commuovente versione del simulacro di Maria Bambina conservata nel vicino santuario di via Santa Sofia.
Insomma, una sosta di pace, di quiete, di fiducia e di speranza nel futuro che mi auguro vi possa rasserenare
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