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  • Immagine del redattoreWilma Viganò

Arte e devozione lungo la via dei balocchi

Oggi destinazione alternativa per la nostra passeggiata. “Alternativa” da un punto di vista turistico ma frequentatissima per un’altra benemerita attività dell’era moderna: lo shopping. Vi vorrei infatti accompagnare il quel regno del consumismo che è corso Buenos Aires, tra le fermate di Lima e Loreto della linea della metropolitana rossa. Qui, lungo quella che è stata definita l’arteria a maggior concentrazione di negozi in Europa, se facciamo cinquanta passi a destra troviamo una delle più interessanti case-museo di Milano, mentre un po’ più avanti sulla sinistra troveremo una chiesa, relativamente recente, ma custode di una storia molto antica. Anche perché forse, non abbiamo mai creato la connessione che Loreto, inteso come piazzale, fosse riferito alla celeberrima Madonna Nera di Loreto. O per lo meno, questo è quanto è successo a me. Ma andiamo con ordine.

Iniziamo la nostra passeggiata al numero 15 di via Jan, la via che corre parallela a corso Buenos Aires al di là dell’omonima galleria di piazzale Lima. Qui troviamo una bella palazzina borghese anni ’30 disegnata nientemeno che da Piero Portaluppi, autore, tra molto l’altro, del Planetario e della Casa degli Atellani di corso Magenta. Era questa la casa di famiglia di Maria Di Stefano, una giovane artista della ceramica che nel 1927 andò sposa ad Antonio Bianchi, un ingegnere della Pirelli. Ingegnere certo, ma dotato di creatività applicata alla tecnica, tanto che da lì a poco avrebbe inventato un giunto che contribuì notevolmente alle fortune dell’azienda per cui lavorava e che viene a tutt’oggi utilizzato. Insomma un’invenzione preziosa tanto che quando andò in pensione gliene regalarono uno tutto d’oro.

Ma il côté creativo dell’ingegnere ebbe modo di espandersi ed arricchirsi con la passione che condivise con la moglie per tutta la vita: il collezionismo d’arte moderna. La coppia, appena celebrate le nozze, andò ad abitare al secondo piano del palazzo déco appartenente alla famiglia di lei ed è a quell’anno, cioè il 1927, che si può far risalire la straordinaria storia di mecenatismo che li portò a raccogliere oltre 2.500 opere dei più importanti artisti italiani del ‘900, da De Chirico a Martini, da Fontana a Sironi, De Pisis, Morandi, Carrà e tanti altri. Compravano con grande oculatezza i coniugi Boschi-Di Stefano, scegliendo bene e spendendo poco, come i grandi collezionisti sanno fare. E si tenevano tutto in casa, nell’appartamento nemmeno tanto grande di via Giorgio Jan, con tutte le pareti trasformate in una straordinaria quadreria, e il resto ammonticchiato qua e là, con gli ospiti che potevano liberamente scegliere cosa ammirare.


Nel 1974, tutta la palazzina col suo contenuto venne donata al Comune di Milano che provvide al riallestimento lungo undici spazi espositivi che mantengono però il gusto e le atmosfere di un normale appartamento di città, con corridoi, camere, salotti, bagno e cucina.

Le opere esposte seguono un criterio di successione cronologica, oltreché di gruppi di appartenenza artistica. Abbiamo dunque la Sala del Novecento italiano, quella del Gruppo di Corrente, la sala degli “Italiens de Paris”, quella dei post-cubisti picassiani, degli spazialisti e così via. Un’intera sala è dedicata a Lucio Fontana con ben 19 opere dell’artista.

Ma l’altro aspetto affascinante dell’ambiente sono gli arredi. Alcuni originali, ma per la maggior parte scelti per affinità storico-artistica. Ecco dunque un tavolino disegnato da Piero Portaluppi, una sala da pranzo progettata da Mario Sironi, il lampadario “Agena” di Alessandro Mendini e così via, in un succedersi di riporti che coniugano tutta la creatività italiana dei primi 60 anni del XX secolo. Non tutto il lascito dei Boschi-Di Stefano ha trovato spazio nella casa-museo di via Jan, e altre opere da loro donate sono esposte al Museo del Novecento di piazza Duomo.

Ma lasciamo il mondo dell’arte e, percorrendo un breve tratto di corso Buenos Aires verso la periferia, dopo un paio di semafori incrociamo sulla sinistra via Pierluigi da Palestrina dove non possiamo mancare un’imponente chiesa con la sua milanesissima facciata neoromanica in cotto. Inaugurata il 2 giugno del 1900 è dedicata al Santissimo Redentore per via del Giubileo di quell’anno dedicato appunto al Redentore, ma in effetti la chiesa è la legittima erede della ben più antica Santa Maria la Nera, e soprattutto della sua statua, la mitica madonna Nera di Loreto che ne era il simbolo.

La storia comincia ai tempi di San Carlo Borromeo, che era molto devoto alla Vergine lauretana tanto da essersi recato ben quattro volte a Loreto come pellegrino, una volta percorrendo ben cinquanta miglia di strada a piedi scalzi! San Carlo era inoltre sensibile alle necessità spirituali delle estreme periferie di Milano quale era allora la campagna verso nord, dove viveva gente poverissima senza conforto religioso. C’era sì una cappelletta dedicata a Sant’Ambrogino, ma niente di che.

Causa pestilenza, San Carlo non riuscì a concretizzare il suo progetto di erigere una vera e propria chiesa, progetto che venne però ereditato, e realizzato in sua vece, dal cugino Federico Borromeo. E Federico fece le cose in grande. Né affidò la costruzione a Francesco Maria Richini, l’archistar dell’epoca, con il preciso briefing di riprendere l’impostazione del Santuario di Loreto in provincia di Ancona, dove un sontuoso edificio rinascimentale incorpora al centro la Casa di Maria. Lavoro imponente per il quale si arrivò persino a far deviare il Seveso!

E l’entusiasmo era tale che, in occasione della posa della prima pietra, un benefattore di cui si sa solo il nome – tale Pietro Spagnolo – commissionò una copia della celeberrima statua della Madonna Nera al più famoso intagliatore milanese dell’epoca, Virgilio del Conte, che prestava la sua opera presso la Veneranda Fabbrica del Duomo. La statua nel giro di pochi mesi venne pronta, costò 18 scudi, e risultava “conforme nella misura alla Madonna della casa di Loreto”. Forse nella misura dico io, ma un po’ meno nell’apparenza, visto che la versione milanese è molto più – diciamo – classicheggiante. Pare però (e l’hanno confermato recenti restauri) che in origine fosse proprio nera, un colorito che nel corso dei secoli è andato via via sbiancandosi, sino ad arrivare all’attuale rassicurante rosato.

Ma torniamo alla chiesa. Grazie ai lasciti di alcuni fedeli abbienti, la sua costruzione procedeva con grande zelo, ma ancora una volta tutto venne sconvolto dalla peste, quella del 1630 raccontata nei Promessi Sposi, che in tre anni, e in assenza di vaccini, dimezzò la popolazione di Milano. Persino la statua della Madonna venne rimossa e data in custodia in una casa privata, quasi fosse in quarantena!

Finita la peste e terminata la chiesa, l’Arcivescovo l’affidò in gestione, come si usava, ad un ordine religioso e la scelta cadde sulla congregazione dei monaci di San Bernardo riformati, per i quali si dovette necessariamente costruire gli alloggi. Nacque così il monastero di Santa Maria di Loreto fuori Porta Orientale che restò in attività sino al 1782 quando Giuseppe II d’Asburgo ne ordinò la soppressione. Fu così che i monaci vennero “licenziati” con uno scarno vitalizio mensile a cui si aggiungeva una cifra una tantum per l’acquisto di abiti civili. Il monastero venne destinato a depositi e alloggiamenti, mentre per la chiesa iniziava un lento ed inesorabile decadimento.

Ma alla decadenza dell’impianto religioso corrispondeva l’esplosione demografica della zona collocata sulla strategica area di passaggio verso le nuove realtà industriali milanesi. Fu così che il cardinal Ferrari, all’inizio del Novecento, decise di dotare quel gran numero di fedeli di una nuova chiesa che venne collocata in un’ampia area disponibile dalle parti dell’attuale via Palestrina ed anticamente appartenuta alla cascina Rizzarda.

Fu così che nacque la chiesa che ci apprestiamo a visitare, con la sua tradizionale facciata con tanto di rosone centrale e le statue dei quattro Evangelisti. L’interno è molto vasto e luminoso, a tre navate, con pianta a croce latina. Appena entrati, sulla sinistra, troviamo la cappella con la storica Madonna col Bambino, che ormai di nero non ha proprio più nulla, ma che viene regolarmente e rigorosamente restaurata, oltreché ovviamente venerata. Sul lato destro, accanto al battistero, val la pena soffermarsi all’altare del Crocifisso, altra misteriosa opera di cui non si sa nulla, ma senz’altro databile a tempi molto antichi. Ai suoi piedi, il corpo della martire Santa Cristina, rinvenuta nelle catacombe romane intorno al 1789.

In un primo tempo di proprietà di un cardinale, la povera santa passò di mano in mano (si fa per dire!) prima di approdare a Milano ai principi Trivulzio che la donarono alla diocesi e che il cardinale Schuster girò a suo volta al Santissimo Redentore. E speriamo che finalmente la povera Cristina possa riposare in pace almeno per qualche secolo!

Sull’altare maggiore, leggermente rialzato, domina l’aula una statua di Gesù Redentore in marmo candido di Benedetto Cacciatori, uno scultore originario di Carrara che ai suoi tempi disseminò per Milano un buon numero di sue opere. Pare che l’insolito gesto della mano del Cristo che la caratterizza sia dovuto al fatto che la statua in origine portava un mo’ di vessillo una croce, poi scomparsa. Il nuovo altare, posto davanti a quello antico, è in legno decorato con quattro bassorilievi provenienti dal pulpito del 1921, demolito dopo l’abolizione di questa veneranda istituzione decretata dal Concilio Vaticano II. Da ammirare anche l’affresco dell’abside, che raffigura la Trinità con Cristo in trono tra santi, angeli e arcangeli, così come le coloratissime vetrate che narrano episodi della vita di Gesù.

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