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Teodolinda e la corona ferrea

  • Immagine del redattore: Wilma Viganò
    Wilma Viganò
  • 3 ore fa
  • Tempo di lettura: 5 min

La storia milanese, come del resto quella italiana, contempla ben pochi re e imperatori autoctoni. Terra di razzie, i nostri regnanti sono stati perlopiù d’importazione, e quelli con maggiore autorevolezza e potere risalgono ad un antico passato. Da noi scarseggiano quindi i gioielli della corona, come invece avviene in Inghilterra, o i tesori di stato, come quelli di Francia e Russia, che però sono andati abbondantemente dispersi nel corso delle varie rivoluzioni. Possiamo però vantare la proprietà di uno straordinario simbolo di potere, onestamente di poco valore intrinseco, ma di un incommensurabile valore storico e spirituale. Mi riferisco naturalmente alla corona ferrea, custodita da sempre in quello scrigno prezioso che è il duomo di Monza. Qui, in una cappella che ospita anche la tomba della mitica regina longobarda Teodolinda (e che varrebbe un’intera puntata di “A spasso con Wilma”), si può ammirare questo gioiello pieno di suggestioni, vegliato notte e giorno, sulle pareti che lo circondano, da ottocento figure di dame e cavalieri. Sono questi infatti i protagonisti di un formidabile ciclo pittorico tardo gotico commissionato nel Quattrocento dai Signori di Milano alla bottega dei Zavattari, che oltre che deliziarci per la loro bellezza, illustrano, in 45 scene, la storia di Teodolinda, ma anche squarci della vita cortese dei tempi, dalle feste alle battute di caccia, dai balli ai banchetti.  


Ma torniamo alla nostra corona. Narra la leggenda che Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, tornò a Roma da Gerusalemme con due chiodi della “vera Croce” di Cristo: con uno creò un morso di cavallo, mentre il secondo lo fece montare sull’elmo del figlio, in modo che l’imperatore e il suo cavallo fossero sempre protetti in battaglia. Attraverso misteriosi percorsi e per quali ragioni non si sa, resta il fatto che ad un certo punto i due cimeli arrivarono a Milano, tant’è che Sant’Ambrogio li cita nell’orazione funebre del 395 pronunciata in morte dell’imperatore Teodosio. Il “sacro morso” rimase sempre a Milano ed è oggi conservato in Duomo, mentre l’elmo finì a Costantinopoli. A chi effettivamente sia venuta l’idea di recuperare il chiodo per inserirlo in una corona imperiale non ci è dato di sapere. Esistono varie leggende e scuole di pensiero in proposito, ma è certo che dopo un paio di secoli papa Gregorio I donò il “sacro chiodo” (in quale forma non si sa) a Teodolinda, regina dei Longobardi, quale ringraziamento per aver fatto erigere il duomo di Monza.

E a me piace pensare che sia stata proprio Teodolinda a commissionare la corona rendendola sacra con l’inserimento del chiodo ribattuto all’interno in forma di una lamina circolare in ferro.  


Il gioiello in sé non è mai stato particolarmente prezioso. Di forma cilindrica, è composto da sei piastre d’oro e d’argento rettangolari e incurvate, collegate fra loro da cerniere. Ogni piastra è decorata con rose a sbalzo e placchette floreali smaltate e, nella totalità, incastona ventidue gemme di vari colori: granati, ametiste, corindoni e paste vitree. Alta 5,3 centimetri, ha un diametro di soli 15 centimetri e pesa 530 grammi. Insomma niente di particolarmente raro, ma la tradizione, che evoca la passione di Cristo e il primo imperatore cristiano ne fecero immediatamente un oggetto di straordinario valore simbolico, che legava il potere di chi la indossava ad un’origine divina ed a una continuità con l’impero romano. Insomma, oltre che storica, la corona è stata da sempre considerata anche santa. Ricordiamo che Pavia era la capitale del regno dei Longobardi e rimase capitale anche del Regno d’Italia medievale, in quanto parte del Sacro Romano Impero. Di conseguenza i nuovi imperatori, che erano anche re d’Italia, venivano incoronati ad Aquisgrana e a Pavia – con la corona ferrea che andava avanti e indietro da Monza – prima di essere ricevuti a Roma dal Papa per la conferma definitiva.


Tanto per confondere le idee, pare che esistesse un’altra corona, questa tutta d’oro, donata alla basilica di Monza dal secondo marito di Teodolinda, tale Aginulfo (da lei stessa scelto tra i valorosi duchi longobardi), corona che riportava all’interno per la prima volta l’espressione “Gratia Dei”, una formula estremamente significativa che venne poi adottata da tutti i sovrani. Ma sfortunatamente quest’altro gioiello venne fuso nei secoli successivi per far cassa.

Nei primi tempi della sua esistenza, la corona attraversò una serie di vicissitudini: venne data come garanzia di un prestito di guerra e poi riscattata, fu trafugata da un crociato e spedita allo zio Papa ad Avignone, fu rubata e recuperata, finché tornò a Monza dove però si scoprì ... che si era ristretta! Delle otto placche che costituivano la corona originale ne erano rimaste soltanto sei. Urgeva quindi un restauro che venne affidato, verso la metà del Quattrocento, all’orafo Antillotto Bracciforte. Da quel momento, date le dimensioni ridotte (ricordiamo di soli 15 cm) non fu più possibile indossarla direttamente sul capo e tutte le successive incoronazioni necessitarono l’elaborazione di speciali e talvolta bizzarri copricapi su cui fermarla.

Resta il fatto che, dal Medioevo in poi, quasi tutti i re e imperatori che hanno governato in Lombardia utilizzarono la corona ferrea quale simbolo divino di presa di potere: da Carlo Magno al Barbarossa, da Carlo V a Ferdinando I d’Austria. A proposito del quale abbiamo persino corso il rischio di farci scippare il prezioso gioiello. La cerimonia d’incoronazione ebbe infatti luogo a Milano il 6 settembre 1838 e, a cerimonia conclusa, gli austriaci accamparono pretese sul prezioso diadema e tanto fecero che, dopo il 1859, lo trasferirono a Vienna. Ma la pace di Zurigo che concluse vittoriosamente per noi la seconda guerra d’indipendenza rimise le cose a posto e il 4 novembre 1866 la corona fu consegnata a Vittorio Emanuele II per essere riportata a Monza.

In ogni caso la cerimonia d’incoronazione in assoluto più spettacolare, quella passata alla storia, fu senz’altro quella di Napoleone Bonaparte che il 26 maggio del 1805 nel Duomo di Milano si mise sul capo da solo la corona ferrea autoproclamandosi re d’Italia e pronunciando la celebre frase “Dio me l’ha data e guai a chi me la tocca!”.

I Savoia, benché ne avessero diritto, non la utilizzarono mai per le proprie incoronazioni, adottando al suo posto quella del Regno di Sardegna. La teca di vetro blindato nella quale la corona è attualmente custodita fu però un dono di Umberto I di Savoia al duomo di Monza, città in cui amava risiedere nell’immensa Villa Reale. L’ultimo trasferimento della corona ferrea ebbe luogo durante la seconda guerra mondiale quando il Cardinale Schuster la fece trasferire segretamente in Vaticano temendo le ruberie tedesche, proprio come avvenne col tesoro di San Gennaro a Napoli. Al termine del conflitto, la Corona tornò altrettanto segretamente a Monza, si dice portata da due canonici e nascosta in una cappelliera dentro una valigia. Insomma, thrilling e mistero coi grandi gioielli non mancano mai!

 
 
 

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