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Immagine del redattoreWilma Viganò

RAVANEI, REMULASS, BARBABIETUL E SPINASS - 1

Chi mi segue sa che tutte le mie storie milanesi sono un invito a passeggiare per la città alla scoperta di luoghi reali, anche se talvolta i racconti che accompagnano le passeggiate affondano le proprie radici nella leggenda o nella tradizione popolare. E cercherò di non fare eccezione nemmeno questa volta, anche se la narrazione dell’argomento che ho in mente di affrontare necessiterebbe invero di una certa sedentarietà. Vorrei infatti parlarvi della cucina milanese e dei luoghi dove spontaneamente ebbero origine i suoi piatti per eccellenza.

Il primo a parlare di cucina a Milano fu Bonvesin del la Riva che già verso la fine del mille e due raccomandava ai concittadini, prima di sedersi a tavola, di “Ringraziare Gesù Cristo, lavarsi le mani, bere del buon vino”. Raccomandazioni che mi guardo bene dallo smentire soprattutto in vista dell’incontro con una tradizione gastronomica alquanto robusta, talvolta impervia per la digestione, fatta di risotto giallo, ossibuchi, fritti di rane, cassoeula, taleggio e gorgonzola, nervitt, busecca e luganega, panettone e colomba, cotoletta e lattemiele, involtini di verza, brasato… Insomma, scordiamoci la dieta e godiamoci la tavola!

E partirei dalla storia del piatto milanese per eccellenza, quello che maggiormente ci contraddistingue, anche in funzione del luogo dove fu per caso inventato: il Duomo.

E abbiamo pure una data precisa: il 3 settembre 1574. A quel tempo veramente il Duomo ancora non esisteva, ma si procedeva alacremente alla sua costruzione. E il luogo dove si assembravano i lavoranti, con tutto il materiale edilizio, le ferramenta, i marmi e i cordami, i mattoni e le sabbie era la cosiddetta cassina del cantiere, cioè lo slargo dietro l’abside dell’attuale cattedrale e dove sorgeva l’antica chiesa di Santa Maria Maggiore, con relativo camposanto in via di demolizione, e dove ha oggi sede l’ottocentesco edificio della Veneranda Fabbrica del Duomo.

Fin dal ‘400 erano calati a Milano da tutta Europa – assieme a tanti altri valenti artigiani richiamati dalle lusinghe pecuniarie di Sforza e Visconti – un gran numero di maestri vetrai (magistri a vitriatis) deputati a raccontare, attraverso le forme e i colori delle immense vetrate della erigenda cattedrale, le storie dell’Antico e Nuovo Testamento. Tra questi operava tale Valerio di Fiandra, un fiammingo che si era trasferito a Milano con tutta la famiglia e alcuni discepoli della sua bottega, e che, per la cronaca, era impegnato nella realizzazione delle vetrate in onore di sant’Elena. Tra i suoi lavoranti spiccava un ragazzotto che dimostrava una particolare abilità nel mescolare le tinte, e che si è guadagnato il soprannome di “Zafferano” per l’uso disinvolto che faceva nelle sue misture della preziosissima spezia (ricordiamo che lo zafferano è più prezioso dei diamanti e costa tra i 30 e 60 mila euro al chilo).

In questo contesto il 3 settembre 1574 i lavori vengono temporaneamente sospesi per la celebrazione delle nozze della figlia di Valerio di Fiandra, per via che il padre, che ha voluto fare le cose in grande, ha invitato tutti i lavoranti al grandioso banchetto nuziale che farà seguito alla cerimonia. E il menu del banchetto prevede un risotto, a quei tempi ancora una rarità, visto che il riso era venduto in drogheria tra le spezie, occorreva una speciale licenza per esportarlo ed era gravato da pesanti decime. Fatto sta che durante la cottura del risotto – forse per fare uno scherzo al suo padrone o per rendere il piatto ancora più attraente e prezioso – Zafferano getta, all’insaputa del cuoco, qualche pistillo nella zuppiera. E anche il risotto, come le vetrate, si tinge magicamente di giallo ad illuminare la meraviglia degli invitati che ne scoprono entusiasti anche lo squisito sapore. Da allora a Milano il risotto DEVE essere giallo. Nei secoli dei secoli!

Alla storia del risotto con lo zafferano è però dovuta una breve postilla: l’invenzione del risotto al salto. Il luogo in questo caso è il Biffi Scala, la pasticceria aperta nell’Ottocento sotto i portici a pochi metri dal teatro, punto di riferimento per gli artisti e i tecnici che facevano tardi con le rappresentazioni. Dopo l’ultima guerra mondiale e la magica ricostruzione della Scala, al proprietario Piero Biffi era venuta l’idea di arruolare un cuoco – tale Alfredo Valli, classe 1921 – per aggiungere qualche piatto caldo al menu. E così fece anche quella sera, anzi ormai notte inoltrata, in cui si affacciò Arturo Toscanini, che era sempre l’ultimo a lasciare il teatro. “Cosa mi offri stasera Piero?”. “Mi spiace ma a quest’ora posso solo farle riscaldare un po’ di risotto!”. Ed è così che nasce il riso al salto, la cui cottura doverosamente messa a punto (massimo 6 minuti e poi steso a raffreddare gradatamente) trasforma un avanzo in un piatto da gourmet.


E per continuare con l’assonanza culinaria al risotto, passerei a raccontarvi la storia di uno degli elementi fondamentali della sua ricetta: il grana padano. Ebbene sì: lo crediate o no, il formaggio grana è stato inventato a Milano. La data, diciamo ufficiosa, è il 1135 ma il luogo è assolutamente certo: l’abbazia di Chiaravalle. Qui, in una zona paludosa dell’attuale Parco Sud di Milano (tra parentesi oggi molto facilmente raggiungibile coi mezzi pubblici), si erano insediati i monaci cistercensi guidati da Bernardo di Chiaravalle. Monaci particolarmente versati all’agricoltura, che inventarono il cosiddetto sistema della “marcite” col quale il terreno, costantemente irrigato, riusciva a produrre nel corso dell’anno 8 o 9 tagli di ottimo foraggio fresco a confronto dei 4 o 5 tagli della normali colture. Tutto questo “ben” di foraggio portò inevitabilmente ad un gran sviluppo dell’allevamento bovino con conseguente super produzione di latte e dell’attività casearia. Una sovrapproduzione difficile da smaltire in tempi in cui i frigoriferi erano di là da venire, per cui ai frati non rimase altro che aguzzare l’ingegno.

Fu così che vennero messe a punto apposite caldaie che diedero vita ad un nuovo tipo di formaggio che si stagiona col tempo. Anzi, più il tempo passa e più incrementa le particolarità del proprio sapore. Il nuovo formaggio aveva un aspetto granuloso e venne battezzato dai bravi monaci acculturati “caseus vetus”, nome però un troppo impegnativo per i poveri contadini della zona che cominciarono a chiamarlo semplicemente “grana” per via del suo aspetto. Oggi il grana (da scavare rigorosamente dalla forma con l’apposito coltellino a goccia, e mai tagliarlo a fette come gli altri formaggi) è diventato un must per la cucina milanese che lo dissemina un po’ dappertutto: nei ripieni, su molti piatti di carne, su quasi tutti quelli di verdure cotte, ma soprattutto sul risotto giallo per creare, con un bel pezzo di burro, la mitica “onda”!

La terza e conclusiva tappa di questa prima puntata riservata alla cucina milanese la vorrei riservare alla cotoletta. Si è discusso per anni sul fatto che sia stato Radetzky a portare la cotoletta a Vienna o la “schitzel” a Milano, ma esiste un documento storico che taglia la testa al toro, anzi al vitello (e scusate la battuta!). Il documento è la “Storia di Milano” del Verri che riporta la lista dei cibi (il menu diremmo oggi) di un pranzo offerto da un abate ai canonici di S. Ambrogio, nel 1134, in cui si parla di “lombolos cum panitio”, cioè di fette di lombo impanate come terza portata del banchettoin tertia pullos rostidos, lombulos cum panitio et porcellos plenos”.

Posso solo immaginare il coccolone dei frati a fine pranzo!

A ulteriore conferma del primato milanese va citato come testimone lo stesso maresciallo Radetzky che, in barba al suo ruolo, amava moltissimo stare a Milano, dove, quando non era impegnato in guerra, era solito frequentare le più modeste ma allegre osterie della città in luogo delle residenze di rappresentanza, tipo Palazzo Arconati o la villa Reale di via Palestro che gli spettavano di diritto. E frequentava molto anche una palazzina molto modesta, tuttora nominata Ca’ Radetzky in fondo a viale Monza, al confine tra Milano e Sesto San Giovanni, dove viveva “la bella Rosina”, alias Giuditta Meregalli, una lavandaia di 40 anni più giovane di lui con la quale ebbe ben quattro figli. E che gli cucinava senz’altro la cotoletta. Tanto che in una sua lettera che accompagna un rapporto indirizzato al conte Attems, aiutante di campo di Francesco Giuseppe a proposito della situazione politico-militare della Lombardia, Radetzky afferma di aver scoperto a Milano il risotto, ma anche una squisita bistecca impanata che descrive minutamente. 

E se proprio vogliamo entrare nel dettaglio, ecco le differenze. La vera cotoletta milanese deve essere fatta con la parte del lombo e con l’osso mentre quella viennese è tagliata dalla polpa. L’impanatura viennese è eseguita passando prima la fetta nella farina e poi nell’uovo e nel pangrattato, mentre a Milano non si usa la farina. Inoltre la nostra fetta deve essere alta quanto l’osso e fritta nel burro, mentre quella viennese è sottile e fritta nello strutto, tanto che la crosta se ne stacca in croccanti rigonfiamenti e solo al momento di servirla vi si versa sopra del burro fritto. E poi noi usiamo il vitello e loro il maiale.

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