LA STAZIONE CENTRALE
Rieccoci in Centrale, eravamo rimasti alla sua più recente “riqualificazione”, tra virgolette, ed è stato proprio in occasione della conclusione definitiva dei lavori che, alla presenza dall’allora Sindaco Moratti e dall’Arcivescovo Tettamanzi, l’edificio è stato dedicato a Santa Francesca Cabrini, patrona dei migranti. Già, la Stazione Centrale ha una patrona ricordata da una targa posta sulla sinistra dell’ingresso principale e dal triangolo luminoso che la sovrasta. E che forse molti di voi si sono qualche volta svogliatamente chiesti cosa diavolo rappresentasse. Beh, innanzi tutto la targa recita testualmente: “Da questi binari tante volte si avventurò per le strade del mondo Francesca Cabrini (1850-1917) Santa per la fede cattolica, apostola di solidarietà per tutte le genti in cammino". Mentre il triangolo è in effetti un tetraedro luminoso in acciaio e luce realizzato da un gruppo di artisti coordinati da Mario Botta, l’architetto ticinese che in quegli stessi anni ha ripensato la Scala.
Madre Francesca Cabrini era un gran personaggio. Dopo aver fondato a Milano l’ordine delle Suore missionarie del Sacro Cuore, a fine ‘800 venne spedita controvoglia dal Papa alla volta di New York (lei voleva andare in Oriente) dove si dedicò all’assistenza dei migranti italiani nei quartieri più derelitti. Rilevò il Columbus Hospital che stava per fallire e lo riorganizzò di sana pianta, creando le basi di quella che è ancor oggi un’eccellenza della sanità americana.
Passò quindi all’opera di integrazione fondando scuole apprezzatissime su tutto il territorio degli Stati Uniti e in altri Paesi sud americani. I finanziamenti se li procurava convincendo gli italiani che avevano fatto fortuna (compreso, si dice, qualche mafioso) a farsi carico dei connazionali più poveri e guadagnarsi di conseguenza il prestigio generalizzato della società del “melting pot”.
Altro campo d’azione furono le carceri dove gli italiani di umili origini e impossibilitati a difendersi (non avevano soldi, non parlavano la lingua e non sapevano da che parte parare) venivano molto spesso ingiustamente condannati.
Brigando con pragmatico spirito meneghino, le suore di madre Cabrini riuscirono a far riaprire un buon numero di processi e a ripristinare i contatti dei detenuti con le famiglie. Naturalizzata americana, Francesca Cabrini fu la prima cittadina statunitense ad essere proclamata Santa nel 1946. Insomma, la dedica della Centrale se l’è ampiamente meritata.
Ma all’interno della Stazione Centrale ci sono, e ci sono stati, tutta una serie di luoghi più o meno nascosti che val la pena di ricordare. Uno divertente che non c’è più e che forse quelli diversamente giovani ricorderanno è il Museo delle Cere. C’è stato sino al 1998 ed ospitava un’ottantina di statue di cera a grandezza naturale. In un ambiente inquietamente cupo si alternavano Sophia Loren e Padre Pio, Totò e Dante, Garibaldi e Papa Wojtyla, oltre a tanti altri. Dopo la chiusura del museo le statue sono state acquistate dall’imprenditore Andrea Federici (si dice per 2 milioni delle vecchie lire) e ricollocate a Palazzo degli Ippoliti nell’alto mantovano dove proseguono la propria vocazione museale. Non si butta mai niente!
Resiste invece, ed anzi è stato anzi splendidamente valorizzato, il Padiglione Reale, originariamente concepito per accogliere i Savoia che non potevano certo attendere l’arrivo dei treni con i comuni mortali. Il complesso, praticamente una sala d’aspetto, si affaccia a metà del metà del binario 22, sull’estrema destra, segnalata dagli imperdibili rappresentazioni allegoriche di Cascella che dominano gli ingressi e che rappresentano tre episodi della storia di Casa Savoia. Le composizioni furono eseguite con piastrelle in maiolica, anziché in mosaico, perché il tempo stringeva e la stazione doveva essere inaugurata. Una raffigura in chiave fantasiosa l’incontro tra Mussolini e re Vittorio Emanuele III dopo la marcia su Roma. Se si osserva bene, si vedrà che il viso di Mussolini è stato cancellato. Leggenda vuole che il 25 aprile 1945, a liberazione avvenuta, gli italiani prendessero a sassate il dipinto fino a cancellare il volto del Duce. Più probabilmente qualcuno salì su una scala e scalpellò via solo il riquadro con il viso di colui che si voleva mai più vedere. L’accesso diretto al Padiglione Reale avviene da Piazza Luigi di Savoia ed è articolato su due livelli: al piano terra la sala delle Armi e a quello superiore l’imponente sala Reale. Gli ambienti mantengono intatto il loro fascino, grazie al perfetto restauro conservativo dei materiali originali come il noce, l’onice, l’ebano, il marmo verdello di Verona, le bellissime maioliche dipinte, e svariati affreschi. Due le curiosità. Le assi del parquet del piano superiore sono disposte a formare delle svastiche (aggiunte probabilmente per una visita di Adolf Hitler che però non entrò mai in quella sala), mentre al piano inferiore è prevista un’uscita segreta (nascosta dietro uno dei grandi specchi del bagno) per assicurare una via di fuga in caso di attacco nemico.
Va ricordato che sotto la stazione che frequentiamo abitualmente si nasconde un’altra stazione, dove arrivavano e partivano le merci, trasferite poi ai vari livelli con un elevatore idraulico all’altezza del 20esimo binario. E fu qui che durante la guerra venne costruito un ricovero antiaereo (ancor oggi praticamente integro), uno dei più grandi della città che salvò la vita a molti milanesi.
Abbiamo detto che l’arrivo dei treni in Centrale avviene ad un livello superiore rispetto a quello stradale. Bene, lungo il fascio dei binari, per una lunghezza di oltre un chilometro, sono stati realizzati fin dall’inizio, tra via Ferrante Aporti e via Sammartini, i cosiddetti Magazzini Raccordati: circa 120 spazi con volte a botte in perfetto stile Liberty con influenze déco per una superficie complessiva di oltre 40 mila metri quadrati. Questi immensi spazi ospitavano un tempo attività commerciali di ogni genere (olio, vino, frutta e soprattutto pesce) oltre ad attività artigianali, e il tutto collegato da binari interni. Dettaglio fondamentale: il sistema dei magazzini raccordati era considerato fuori dalla cinta del dazio, quindi una sorta di porto franco, che prevedeva cancellate e varchi dotati di gabbiotti del dazio – tuttora visibili – dove pagare l’imposta sulle merci in uscita. Dagli anni ’70 si è assistito ad un graduale abbandono degli spazi che però stanno avendo di recente nuovo impulso grazie anche agli eventi del Fuorisalone della Design Week.
Ma il luogo nascosto più importante della Centrale è il famigerato binario 21 al quale si accede da via Ferrante Aporti.
Questo scalo-merci, non visibile al normale traffico ferroviario e per tutti gli anni ‘30 adibito al trasporto postale, venne infatti utilizzato dal 1943 al 1945 come luogo di partenza per le deportazioni di ebrei e dissidenti diretti ai campi di concentramento e sterminio. Oggi, nel luogo stesso della “tragedia” (Shoah in ebraico), è sorto dal 2013 uno straordinario luogo della memoria, il Memoriale della Shoah appunto, per sanare una ferita e, come dice il Presidente della Fondazione Ferruccio de Bortoli, “per riconciliare Milano con la propria grande tradizione civile e culturale”.
Subito all’ingresso ci si emoziona. In un ambiente scarno ed impattante, ripulito ma lasciato com’era, ci si scontra con il “Muro dell’Indifferenza”, la parola scelta da Liliana Segre per esprimere il motivo per il quale tutta la Shoah è stata possibile. La senatrice venne deportata con il padre Alberto proprio da questo luogo con destinazione Auschwitz. Solo Liliana sopravvisse. Liberata nel ‘45, passarono anni prima che riuscisse a parlare della sua tragica esperienza.
Proseguendo nel percorso si incontra l’Osservatorio, un’installazione concepita per proiettare i visitatori nella dimensione di smarrimento in cui si trovavano i deportati diretti verso “ignota destinazione”, una sensazione evocata da un filmato d’epoca
dell’Istituto Luce che documenta il riutilizzo dell’area cosiddetta “postale”. Ma i brividi arrivano sulla banchina delle deportazioni dove si entra in alcuni vagoni merci originali sui quali venivano caricati a forza i prigionieri, fra urla, grida e latrati di cani. Su ciascun carro venivano ammassate fra le 60 e 80 persone – donne, uomini, vecchi, bambini – che avrebbero viaggiato per giorni in condizioni disumane.
Si arriva quindi all’impressionante Muro dei Nomi che riporta i 774 nomi degli ebrei deportati il 6 dicembre del ‘43 e il 30 gennaio del ‘44 con destinazione Auschwitz-Birkenau. Di loro solo 27 sopravvissero e i loro nomi sono evidenziati in rosso. E son proprio pochi. Altri 18 convogli vennero caricati in questo stesso luogo con prigionieri ebrei e semplici cittadini oppositori del regime. Per terminare il giro, sempre ottimamente guidato, ci si ferma in gruppo nel Luogo di Riflessione: uno spazio conico dove, al buio con una sola luce centrale, è possibile sostare, confrontarsi, pensare e pregare.
Prima dell’uscita in una serie di piccole Stanze delle Testimonianze si proiettano interviste videoregistrate ai sopravvissuti, mentre il grande Auditorium che le affianca è destinato a presentazioni e dibattiti pubblici di carattere storico, culturale e sociale. Grazie ad una recente donazione è in allestimento anche una grande Biblioteca.
i8Tutto questo per ricordarsi di ricordare. Perché il passato non possa e non debba ripetersi mai più.
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