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Immagine del redattoreWilma Viganò

il borgo delle Grazie - 2

Riprendiamo la passeggiata nel Borgo delle Grazie, interrotta per “troppa grazia” (scusate l’inevitabile battuta) di luoghi, bellezze, storie e personaggi della puntata precedente. Dopo la visita alla chiesa, al chiostro e alla sacrestia vecchia, eccoci infine nell’ambiente in assoluto più famoso del complesso conventuale dei frati domenicani: il refettorio.

Ultima Cena - Laura Invernizzi

Qui, sulla parete che volge ad occidente (pessima scelta e vedremo perché), si staglia la celeberrima Ultima Cena di Leonardo, contrapposta ad un’altra maestosa composizione, la Crocifissione di Donato Montorfano. E mi permetto di citare subito quest’altro capolavoro per rendergli qualche giustizia, visto che per secoli è stato ingiustamente sopraffatto dal dirimpettaio. Ma tant’è, uno i vicini non se li sceglie.

Entrambe le opere, L’Ultima Cena e La Crocifissione, sono imponenti (quasi cinque metri d’altezza per nove di larghezza) e furono commissionate ai rispettivi autori da Ludovico il Moro, al culmine della sua smisurata ambizione di fare di Milano una novella Atene. Il Montorfano se la sbrigò nel giro di un anno – l’affresco è datato 1495 – ma forse dimenticò di rendere il dovuto omaggio al committente, visto che più tardi venne chiesto a Leonardo di inserire nella scena, come allora si usava, il ritratto dei duchi di Milano con i figli. L’aggiunta era nell’angolo in basso a destra della composizione del Montorfano, ma oggi la si può solo intravvedere.

Quando Leonardo iniziò a lavorare al Cenacolo, e siamo attorno al 1494, era un po’ giù di corda per via del mancato concretizzarsi dell’altro grande progetto in cui s’era impegnato: il mastodontico cavallo in bronzo per il monumento di Francesco Sforza, che aveva studiato in tutti i minimi dettagli, dai modelli ai tempi di fusione. Peccato che il Moro preferì destinare il bronzo necessario alla sua realizzazione al saldo di un debito contratto col suocero, il duca d’Este. E così addio cavallo. Ma l’affronto venne vendicato secoli dopo da un magnate americano (proprietario di una catena di supermercati) che ne commissionerà la realizzazione di due esemplari sulla base dei precisissimi studi di Leonardo oggi conservati nel castello di Windsor. Una copia la tenne per il proprio parco naturale e artistico in Michigan, mentre la seconda venne donata alla città di Milano dove arrivò, suddivisa in sette parti, dato il peso e l’imponenza, nel 1999. Ricomposta, la possiamo oggi ammirare, nella grandiosità dei suoi oltre otto metri d’altezza, all’ingresso dell’ippodromo di San Siro.

Ma torniamo all’Ultima Cena. Depresso o meno che fosse, Leonardo ce la mise tutta, mettendo a punto una gran serie di disegni preparatori, appunti, ricerche di volti, studi sugli abiti, sperimentando nuove tecniche… Creando, distruggendo e rifacendo. Un travaglio che occupò ben quattro anni di attività creativa ma che ci consegnerà una pietra miliare della storia dell’arte mondiale. La scena rappresentata è tratta dal Vangelo di Giovanni: “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà”, ma la classica iconografia venne profondamente rinnovata da Leonardo alla ricerca dei significati emotivi più intimi e personali dei protagonisti. I cosiddetti “moti d’animo” degli apostoli – come lui li definì – mostrano lo stupore e la paura, lo sdegno e lo sconcerto, ma anche l’amore, suscitati dal fatidico annuncio.

Laboriosissima fu la ricerca dei volti dei protagonisti a partire da quello di Gesù, che doveva possedere i tratti puri di un uomo senza peccato. Tratti che finalmente il nostro eroe individuò in un bel giovane di 19 anni, incontrato per caso in una piazza di Roma, mentre per il viso di Giuda le malelingue raccontano che somigliasse al priore del convento che importunava continuamente l’artista (diciamo che rompeva le scatole) sollecitandolo ad andare avanti coi lavori. Per non parlare della dolcezza del volto di Giovanni, l’apostolo più giovane seduto alla destra di Gesù, recentemente riportato alla ribalta mondiale dal romanzo di Dan Brown “Il codice da Vinci”. Volto talmente aggraziato che si ipotizza raffigurasse Maria Maddalena. Un’interpretazione ben inteso di assoluta fantasia, che però ha trovato un gran numero di seguaci, a partire dal Premio Nobel per la letteratura Dario Fo. Vedete un po’ voi.

Quanto alla composizione del gruppo, Leonardo si è probabilmente ispirato all’astrologia cristiana nata con i Re Magi che vedeva in Cristo il sole, e nei dodici apostoli i segni dello zodiaco (o, più esattamente, le qualità che essi rappresentavano). Fu così che li rappresentò suddividendoli in quattro gruppi di tre, un simbolismo che si ritrova nelle vetrate delle cattedrali e che da allora è diventato pressoché ineludibile. A Leonardo non piaceva la tecnica dell’affresco: necessitava di una pittura troppo veloce che non gli permetteva ripensamenti, correzioni, rivisitazioni dei tratti e dei colori. Sperimentò dunque una tecnica mista su parete umida, praticamente una “tempera forte alla fiamminga”, che si rivelò deleteria per la conservazione del dipinto. Inoltre la parete su cui lavorava era quella posta a nord del refettorio, con conseguente umidità climatica milanese, a sua volta accentuata dai fumi e dalle condense delle cucine con cui confinava. Insomma, un disastro.

Già mezzo secolo dopo, quella linguaccia del Vasari parlava del dipinto come “originale tanto mal condotto che non si scorge più se non una macchia abbagliata”. Nei secoli si sono succeduti i restauri per far fronte al degrado. Restauri, ovviamente, più o meno riusciti. L’ultimo, che ha utilizzato le tecniche del settore più all’avanguardia, risale al 1978 e venne concluso solo dopo oltre 20 anni. L’Olivetti, che subentrò ad un certo punto come main sponsor, ci investì oltre 7 miliardi delle vecchie lire. Tra le tante scoperte fatte nel corso del restauro, il ritrovamento del buco di un chiodo piantato in corrispondenza della testa del Cristo. Qui Leonardo aveva appeso i fili per disegnare l’andamento della prospettiva (la cosiddetta via di fuga). Così come sono stati riscoperti anche i piedi degli apostoli sotto il tavolo, ma non quelli del Cristo, distrutti, chissà quando, dall’apertura di una porta che serviva ai frati per collegare il refettorio con la cucina. Oggi il dipinto è visitato da quasi mezzo milione di persone l’anno. Numero rigidamente contingentato con lunghe liste d’attesa.


Ma torniamo ai tempi di Ludovico il Moro che, come abbiamo raccontato all’inizio della scorsa puntata, aveva dato inizio, soprattutto nel borgo delle Grazie, ad una spregiudicata politica immobiliare con l’obbiettivo di trasformare Milano in un gioiellino rinascimentale. E per far ciò elargiva gratuitamente parti dei suoi possedimenti a personaggi a lui fedeli, con l’impegno però che questi se ne occupassero adeguatamente e, in caso di edifici, li rimettessero in sesto – lo ristrutturassero diremmo ora – a loro spese. Niente bonus. E al malinconico e un po’ demotivato Leonardo in lite perenne col priore del convento, pensò di donare una vigna, proprio di fianco al refettorio a cui stava lavorando. Il Genio Supremo non disdegnava il vino – anzi! – e possiamo solo immaginarci il suo sollievo quando la sera attraversava la strada per rilassarsi con qualche bicchiere di buon vino prodotto dalla “sua” vigna. Una proprietà, quella di questi filari, che Leonardo rivendicò per tutta la vita (anche ai tempi del soggiorno in Francia) e che lasciò ufficialmente in eredità a due fedeli seguaci.

Vigna di Leonardo - Wilma Viganò

Della vigna si persero poi le tracce nel corso dei secoli, finché Luca Beltrami avviò, all’inizio del Novecento, una ricerca sulla sua esatta collocazione, ricerca ripresa ed approfondita, qualche anno più tardi, da Piero Portaluppi, impegnato in zona nel restauro della Casa degli Atellani. L’ultimo, o meglio, il più recente atto della vicenda, ha luogo in occasione di Expo 2015 quando, dopo un lungo lavoro filologico e di analisi sui detriti organici della terra della vigna, è stato possibile risalire al DNA originale della vite di Leonardo, clonarlo, riprodurre lo stesso tipo di vitigno, coltivarlo e lanciarlo sul mercato con l’etichetta di malvasia di Candia Aromati dei Colli Piacentini di Leonardo. Un’abile operazione di marketing che credo non sarebbe del tutto dispiaciuta al nostro genio, cui possiamo fors’anche attribuire (ne ha fatte tante!) l’invenzione del rito milanese per eccellenza: l’aperitivo.    


Ma torniamo ancora una volta al borgo delle Grazie ai tempi del Moro. Tra le residenze elargite agli amici c’era una costruzione, originariamente piuttosto modesta, situata all’altezza dell’attuale numero 67 di corso Magenta, che comprendeva anche la vigna di cui sopra. La casa, già dei Vimercati, venne donata a Giacomotto della Tela, primo scudiero di corte, e ai suoi famigliari che, come da contratto, si impegnarono in una vigorosa ristrutturazione e dando vita nel nuovo palazzo ad una stagione di grande mondanità con la frequentazione della migliore società milanese. Ce lo certificano le cronache del tempo. Nei secoli la Casa degli Atellani (come è stata da allora conosciuta) passò attraverso varie proprietà per approdare nel 1922 alla famiglia di Ettore Conti, l’ingegnere-benefattore che già abbiamo conosciuto nella precedente puntata nella veste di sponsor principale del restauro della chiesa di Santa Maria delle Grazie. Il Conti in effetti si innamora di tutta la zona, acquista anche il palazzo adiacente alla Casa degli Atellani (l’attuale numero 65 di corso Magenta), il portico di congiungimento, le vigne (compresa quella di Leonardo) e affida la riorganizzazione del tutto ad un giovane ed entusiasta Piero Portaluppi, l’architetto che aveva già reclutato per molte delle sue centrali elettriche in Valtellina. E il Portaluppi – che diventerà anche suo genero oltre che tra i più famosi urbanisti e storici del dopoguerra – si butta nell’impresa, recuperando il recuperabile e facendo, di tutto il resto, la sua personale interpretazione (peraltro a mio avviso godibilissima) dello stile rinascimentale milanese.

Subito dopo l’ingresso spiccano le due corti comunicanti, con reperti di storia antica sparsi qua e là, e l’affascinante porticato affrescato con figure di castelli, cavalieri e nobildonne che fanno rivivere atmosfere d’altri tempi. Entrando poi nella seconda palazzina e aggirandosi per le stanze riccamente arredate, si ritrovano altrettanto evocative rappresentazioni che mescolano temi religiosi a quelli naturalistici e pagani. Come la Saletta dello Zodiaco che propone i 12 segni affrescati sul soffitto e il pavimento a mosaico che interpreta l’universo stellare.


O ancora lo studio di Ettore Conti, con l’imponente camino circondato da pareti in legno intarsiate e sovrastato dalle insegne e stemmi dell’alleanza matrimonial-dinastica tra Cristina di Danimarca e Francesco Sforza.

Da ammirare poi le volte affrescate di tutte le sale, di cui una con dipinti originali di Bernardino Luini, ed un’altra con i nodi molto milanesi dei Borromeo. Curatissimo anche il giardino dal quale si intravvede la cupola bramantesca di Santa Maria delle Grazie che, proprio come nelle intenzioni del Moro, sembra vegliare e proteggere tutto il quartiere. Le ultime notizie ci danno purtroppo il passaggio di proprietà, sia della Casa degli Atellani che della vigna di Leonardo, al gruppo francese del lusso LVMH di Bernard Arnault.

L’ennesima bellezza che ci siamo fatti scippare e che dall’ottobre scorso è chiusa per le visite al pubblico. Pare che verrà trasformata in hotel. Amen.

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