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Immagine del redattoreWilma Viganò

GRIFFES ANTE LITTERAM

A Milano - si sa - i marchi (cioè i famigerati “brand” in milanese moderno) sono di casa. Da Armani a Versace, da Motta a Alemagna, da Rizzoli a Mondadori, tutto ciò che è economicamente importante (e solitamente di valore) viene identificato con un nome e con un simbolo.

Bene, l’usanza non è niente di nuovo come dimostra la passeggiata che vi propongo oggi. Il cosiddetto brand in questo caso è di assoluto livello e “firma” una via, una piazza, un palazzo, una chiesa e un monumento. Tutti raccolti attorno a quello che appare come un piccolo enclave: centralissimo, discreto e (credo) poco conosciuto.

Il brand a cui mi riferisco è quello dei Borromeo, e il loro nobilissimo regno lo si può tranquillamente raggiungere a poche decine di metri da Cordusio. Piazzetta Borromeo, e la relativa vietta che si diparte verso nord, sono una piccola oasi di tranquillità e pace che trasuda storia e milanesità da tutti i pori.

I Borromeo erano un’antica famiglia di ricchi banchieri provenienti da Padova, con nobili ascendenze spirituali (papa Paolo III) e civili (l’imperatore Federico II di Svevia). A Milano, Vitaliano Borromeo arrivò per via matrimoniale, come si usava un tempo, meritandosi subito l’appoggio e la fiducia, per capacità e potere, dei nuovi parenti, i Visconti. Divenne quindi tesoriere del Ducato di Milano e tanto ben fece che Filippo Maria Visconti gli concesse vari feudi tra cui quello di Arona sul lago Maggiore. Fiducia poi confermata da Francesco Sforza e Ludovico il Moro che ampliarono le donazioni tanto che si andò componendo il cosiddetto “Stato Borromeo”, vasto più di mille chilometri quadrati e confinante con la Svizzera. Un territorio che conquistò nei secoli una grande importanza strategica, oltreché economica per via che i Borromeo vi potevano riscuotere le tasse!

E quel che resta della più antica residenza milanese dei Borromeo (e che è tuttora parte integrante del loro patrimonio) la si può oggi ammirare nella piazzetta a loro dedicata.

Palazzo Borromeo - arco - Wilma Viganò

In origine era una residenza enorme, che occupava l’intero isolato, ma che venne falciata dai bombardamenti del 1943. Ricostruita da Ferdinando Reggiori nel dopoguerra con una bella facciata in cotto a vista, mantiene uno straordinario portale in marmo con arco a sesto acuto del XV secolo e con decorazioni a vite e rami di quercia. In cima al portale un piccolo dromedario coronato, simbolo di pazienza e devozione, ci introduce al più antico logo della famiglia.

Del palazzo se ne salvò però fortunatamente un’ala del secondo cortile con le sue evocative decorazioni e le armoniose finestre in cotto.


All’interno, in quello che era uno dei saloni d’onore della residenza e che oggi ospita uno studio d’architettura, si può trovare (se si ha la fortuna di essere ammessi) uno dei tesori meglio nascosti della città: una serie di affreschi, di raffinata eleganza, che raccontano i giochi di vita cortese nella Milano del Quattrocento. Ogni parete ospita un gioco diverso: i tarocchi, la palmata (una specie di “darsi il cinque” del tempo) e la palla. Ovunque il blu del cielo, del mare e di alcune vesti delle leggiadre fanciulle è purtroppo scomparso e il colore prevalente è il rosso uniforme. Ma le figure, gli atteggiamenti e le composizioni dal carattere insolitamente profano sono straordinarie, tanto che a questi dipinti viene attribuita l’ispirazione per altri cicli famosi di residenze nobiliari lombarde, a partire dall’arcinota Camera degli Sposi” del Mantegna a Mantova.

Dicevamo dei loghi della famiglia Borromeo. Oltre a quello più antico del dromedario scolpito sul portale d’ingresso del palazzo, ne esistono altri, di cui due celeberrimi. Il primo è quello dei cosiddetti “nodi Borromei”, tre anelli intrecciati che non si separano, ma se si toglie un lato qualsiasi dei tre anelli, gli altri due si scindono.

Il significato può rimandare all’alleanza dei Borromeo con gli Sforza e i Visconti, ma essendo stato molto apprezzato da uno dei più illustri membri della famiglia, il cardinale Federico Borromeo, non è nemmeno da escludere una rappresentazione religiosa della Santissima Trinità. Sul “nodo Borromeo” e le sue simbologie sono stati scritti trattati di ogni genere e in ogni lingua, ma a noi basta riconoscerlo su palazzi, statue o altri stemmi in giro per Milano o per tutta la Lombardia.

Ma il vero “logo” dei Borromeo, quello che vediamo riprodotto un po’ ovunque a Milano, è quello adottato dal più famoso rappresentante della famiglia: San Carlo Borromeo, cugino del sopracitato Federico. Si tratta di un’unica parola latina – “Humilitas” – scritta in caratteri gotici rigidamente verticali, e che riporta alla religiosità e pietà del santo che contende ad Ambrogio il titolo di santo più rappresentativo della milanesità. San Carlo aveva un carattere molto determinato: ancora giovanissimo si fece riassegnare dallo zio Papa alla Diocesi di Milano (lasciando Roma dove avevano cercato di accaparrarselo) per condurre direttamente sul campo della Valtellina la lotta allo scisma protestante di Lutero. A Milano riformò completamente la Diocesi visitando di persona tutte, diconsi tutte, le migliaia di parrocchie, anche le più piccole dei borghi più lontani, e dettando nei minimi particolari il rinnovamento dei costumi ecclesiastici, arrivando persino a dettare modelli architettonici.

Inventò i seminari, istituì i registri delle nascite, battesimi, morti e matrimoni (quando l’anagrafe non si sapeva nemmeno cosa fosse) e si impegnò in prima persona per mantenere la coesione cittadina nel corso della terribile peste del 1576, detta anche “peste di San Carlo. Insomma, un gigante morale ma anche fisico, visto che in un’epoca in cui la statura media era sul metro e sessanta, lui superava il metro e ottanta con una robusta corporatura che manteneva in perfetta forma pur cibandosi una sola volta al giorno di pane e acqua (ma tanto pane si racconta!).

Insomma potremmo continuare a parlare per ore di San Carlo ma la cosa migliore è forse quella di andare ad incontrarlo di persona all’angolo opposto (rispetto al palazzo) ) della piazza a lui dedicata dove svetta una sua statua.

San CArlo - crocetta - Wilma Viganò

Definita affettuosamente “San Carlino” dai milanesi, si tratta di una statua tutto sommato di grandezza di poco superiore al normale, ma niente al confronto del “San Carlòn” di Arona, sul lago Maggiore, un colosso in bronzo di quasi quaranta metri inaugurato nel 1698 e capace di ospitare un paio di visitatori in piedi dentro il monumentale naso. Ma la statua che ci troviamo di fronte a Milano aveva una funzione ben precisa, oltreché celebrativa. Era infatti una “crocetta”, cioè una di quelle colonne votive posizionate agli incroci delle strade che, nel corso delle pandemie, permettevano alla popolazione in quarantena di assistere alla Messa senza dover lasciare la propria abitazione (come raccontato nella puntata 19). Lo stesso Carlo Borromeo ne ordinò 19 nel corso della peste del 1576, che si diffuse violentemente anche a Milano per via del pellegrini del Giubileo indetto quell’anno. Così come non aiutarono certo a limitare i contagi le numerose processioni allestite per chiedere la grazia divina. Eh vabbè!

Ma ad un certo punto su tutte le crocette si abbatté la furia distruttiva di austriaci e francesi che le definirono “arredo urbano di intralcio alla viabilità” e ne venne ordinata la distruzione per recuperarne materiale da costruzione. Ne sono rimaste pochissime, variamente distribuite per il centro città e, tra queste, proprio quella dedicata a San Carlo che possiamo ammirare in piazzetta Borromeo. In effetti il San Carlin non era lì in origine (anche perché lì non c’è alcun incrocio di vie) ma era collocata nella zona della vicina Curia Ducis, cioè piazza Cordusio. Ma la famiglia Borromeo fu costretta in tutta fretta a trasportarla nella piazza di famiglia “entro dieci giorni per intralcio al traffico” come recitava l’ingiunzione, dopo che la carrozza del governatore austriaco di Milano c’era andata a sbattere. E con ciò è confermato che in città il traffico è sempre stato un problema!

Chiesa Santa Maria Podone - Wilma Viganò

Ultimo luogo da visitare nella nostra piazza griffata Borromeo è la chiesetta di Santa Maria Podone. La chiesa è molto antica. Fatta erigere da tale Verulfo, detto Podone – o Pedone dai grandi piedi, di cui non si sa praticamente nulla – risulta infatti già consacrata nell’871. Dopo cinque secoli, “venuta in pessimo stato per la vecchiaia”, i Borromeo iniziarono a prendersene cura: aggiornarono lo stile architettonico da romanico in gotico, la dotarono di un bel campanile e arricchirono la facciata con un interessante bassorilievo della Madonna con Gesù Bambino. L’ultimo consistente contributo è da attribuire al cardinal Federico che nel 1626 concluse il rifacimento, e praticamente ne fece la cappella di famiglia disseminando il motto “Humilitas” un po’ dappertutto.

Per evitare sorprese a chi avesse intenzione di visitarla, va detto che l’edificio è da anni in dotazione alla chiesa greco ortodossa d’Italia e Malta, attivamente presente a Milano sin dal 1925. Una comunità composta da circa 800 famiglie che ha avuto l’onore di ricevere nel 2013 la visita del patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I. Non sorprendiamoci dunque per lo scenografico ingresso allestito con tendaggi rossi e fregi dorati che crea un notevole contrasto con l’iscrizione “Humilitas” sparata sul pavimento.

L’interno è a tre navate con l’altare superbarocco costituito dal classico tempietto con Cristo e due angeli secondo le precise direttive di San Carlo di cui sopra. Il tutto purtroppo quasi completamente celato dall’iconostasi, detta anche Porta Regale, oltre la quale passano solo i pope. L’affresco delle calotta nell’abside raffigura l’Assunta ed è attribuito al Genovesino. Sui lati si aprono due cappelle: a destra quella dei Borromeo e a sinistra quella dedicata a un crocefisso del ‘400. E poi volte affrescate e tante altre opere restaurate abbastanza recentemente (alcune addirittura trecentesche), mescolate alle immancabili icone e paratie ortodosse.

Infine, in una cappelletta laterale appositamente creata a metà Ottocento, si può ammirare una delle rarissime “Madonne del parto” lombarde, un tempo – ma forse ancora – oggetto di particolare devozione da parte dei fedeli. Attribuita per secoli a Michelino da Besozzo, l’affresco sembra risalga al 1385 come appurato da un’iscrizione comparsa nel corso di recenti restauri. Una curiosità. Nella chiesa è sepolto l’astronomo e scienziato dalmata Ruggero Giuseppe Boscovich, che frequentò a lungo i Borromeo e curò la realizzazione dell’Osservatorio Astronomico di Brera.

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