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  • Immagine del redattoreWilma Viganò

Dalle parti di via Senato - 2

Dopo la visita all’ex Collegio Elvetico e alla chiesa di San Pietro Celestino, vi invito oggi ad un altro dei miei prediletti musei a cielo aperto, dove non occorre prenotazione, né green pass, né mascherina. Sempre aperti, night and day, e gratuiti.

Palazzo del Senato - Mere Ubu - Mirò - Wilma Viganò

Per cominciare direi di soffermarci accanto alla grande statua in bronzo dello scultore surrealista spagnolo Joan Mirò che si trova nello slargo davanti al Palazzo del Senato e che i milanesi hanno sempre guardata con un certo sospetto, barra inquietudine. Alta quattro metri e denominata “Mère Ubu” (Madre Ubu) rappresenta una figura antropomorfa con corpo di donna e volto d’uccello, ventre ampio e possenti zampe, ispirata all’artista da una pièce del teatro dell’assurdo di Alfred Jarry. La commedia a cui si riferisce narra le avventure di padre Ubu, ufficiale di fiducia del re di Boemia e di Germania Venceslao, che organizza un colpo di Stato e uccide il re per impadronirsi del trono. Mère Ubu è la donna istigatrice ed ambiziosa che incita il marito a compiere atti efferati, abile manipolatrice psicologica nel giocare con le debolezze del re. In pratica una figura femminile non proprio rassicurante, che lo stesso Mirò donò alla città nel 1976, come ringraziamento per la grande mostra dei suoi lavori che si tenne quell’anno proprio nei cortili del Palazzo. Le reazioni della cittadinanza furono abbastanza tiepide, se non addirittura polemiche ma, come si dice, “A caval donato…”


Ma lasciamo la grande Madre Ubu e proseguiamo la nostra passeggiata per incrociare, sempre lungo via Senato, il monumento a Felice Cavallotti, il poeta, giornalista, garibaldino e deputato dell'estrema sinistra radicale milanese, soprannominato “il bardo della democrazia”. Idealista appassionato, Cavallotti aveva combattuto innumerevoli battaglie per la giustizia sociale (espresse tra l’altro da ben 33 duelli!) fino a lasciarci la pelle nel 1898, a soli 56 anni per via di un ennesimo confronto armato con il giornalista conservatore Ferruccio Macola.

Fu allora che, per rimandare ai posteri la figura e le gesta del Cavallotti, un gruppo di amici capeggiati da un altro garibaldino, Giuseppe Missori, si attivò immediatamente per una raccolta fondi da destinare ad un monumento in memoriam la cui realizzazione venne affidata al “discusso” scultore Ernesto Bazzaro. “Discusso” perché le sue fanciulle discinte erano state appena rimosse da Palazzo Castiglioni (soprannominata per l’occasione Ca’ di ciapp) per oltraggio al pubblico pudore e relegate in un magazzino.

Ma il Buzzaro (probabilmente per ripicca) ci ricascò e arrivò persino a spettacolizzare la sua nuova opera scolpendola in pubblico. In onore del poema del Cavallotti “La marcia di Leonida”, il Bazzaro lo ritrae come un Leonida a riposo, e come ogni eroe greco che si rispetti è “bel e che biott”, cioè svestito, ancorché circondato da bassorilievi che ne narrano le gesta risorgimentali.

Il monumento, inaugurato nel 1906, venne collocato in quella che è oggi piazza Pio XI, proprio di fronte all’Ambrosiana, ma l’allora Prefetto Achille Ratti, futuro papa, comunicò immediatamente le sue rimostranze all’amministrazione comunale. Il nudo non veniva considerato infatti consono al luogo, addirittura definendolo “monumento all’inciviltà” e dando inizio ad una causa in tribunale che vedrà il Bazzaro uscirne ovviamente sconfitto e persino costretto a pagare le spese legali.

Ma nonostante tutto la statua rimase lì, nell’allora Piazza della Rosa, sino al 1939 (ben dopo la morte del Bazzaro) quando Mussolini, che non può ovviamente apprezzare il libertario Cavallotti, la fa spostare prima nei Giardini della Guastalla e poi nei depositi comunali di via Pompeo Leoni.

E questa è la sua salvezza, perché la statua sfugge ai bombardamenti della seconda guerra mondiale e viene riesumata nel 1952 per essere posta accanto al Palazzo del Senato in sostituzione di un’altra statua, quella di Giacomo Medici del Vascello, distrutta invece dalle bombe. Chissà se il Cavallotti avrà mai pace o gli toccherà prima o poi la furia dei moderni revisionisti?

Via Boschetti - Obelisco o croce di Bottonuto - Wilma Viganò

Ma svoltiamo ora sulla destra e percorriamo i giardinetti di via Marina per sbucare nello slargo dell’incrocio con via Boschetti dove svetta un imponente obelisco, monumento riciclato e anche lui di provenienza, per così dire, “alternativa”. Altro non era infatti che una “crocetta”, cioè una colonna votiva posta all’incrocio di strade principali per permettere ai cittadini di pregare all’aperto durante le pestilenze.

Questa era detta anche “Croce del Bottonuto” per via della croce in ferro che la sovrastava e della sua collocazione nell’ormai scomparso, omonimo quartiere che si sviluppava tra l’attuale via Larga e piazza Duomo. Realizzata in granito rosso di Baveno e dedicata a San Glicerio, vescovo di Milano nel V secolo, venne consacrata da Federico Borromeo nel 1607.

Con la soppressione della Compagnie della Croce avvenuta a fine ‘700, molte colonne votive presenti nelle strade di Milano furono distrutte ma l'obelisco fu riciclato nell’attuale posizione (in perfetto spirito eco-friendly diremmo oggi), per la semplice ragione che dov’era creava intralcio alle carrozze in circolazione. Nell’operazione venne coinvolto il Piermarini che stava lavorando al nuovo Palazzo Reale che disegnò un nuovo basamento con ornamenti in bronzo, successivamente rubati nel 1848. La croce sulla sommità venne invece sostituita da una stella, opera di tale Giocondo Albertolli, ai tempi insegnante all’Accademia di Brera ed autore dei decori neoclassici del Teatro alla Scala e della Villa Reale di Monza. E tant’è per l’obelisco.

Via Boschetti 6 - statua Cristoforo Colombo - Wilma Viganò

Per l’ultima tappa del nostro giro, sempre lungo lo slargo in corrispondenza del numero civico 6 di via Boschetti, il consiglio è quello di curiosare nel giardino condominiale per ammirare - al di là di una cancellata ma ben visibile ai passanti - una statua di Cristoforo Colombo. Ma cosa c’entra Cristoforo Colombo con Milano? Già, nessuno lo sa. E nessuno sa perché questa statua in pietra di autore sconosciuto sia finita lì. Di certo si sa solo la data del collocamento: 1860, l’anno dell’impresa dei Mille e dell’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna. Che ci sia un collegamento?

Colombo è qui rappresentato in maniera insolita rispetto all’iconografia abituale: barba fluente, abbigliamento semplice, regge un berretto da marinaio nella mano destra e appoggia la sinistra ad un’ancora e a un rotolo di gomene. Ma quel che conta è lo sguardo. L’espressione visionaria e avventurosa rivolta verso ovest, dove si trova il Nuovo Mondo per inseguire la sua ossessione di “Buscar el levante por el poniente”, cioè raggiungere l’Oriente dirigendosi ad Occidente. Anche se poi le cose andarono ben diversamente.

Va detto che non esistono ritratti autentici di Cristoforo Colombo. Tutte le opere pervenuteci sono dipinti realizzati dopo la sua morte, e quindi disegnati in base alle descrizioni dei suoi contemporanei, o vere e proprie opere di fantasia. Dai racconti risulta che fosse piuttosto alto (oltre 1,80), con capelli biondi, occhi chiari e una carnagione leggermente lentigginosa, resa rossa dalla prolungata esposizione al sole.

Ma tutte queste informazioni non spiegano certo la sua ottocentesca celebrazione milanese, né tantomeno un’altra curiosità relativa alla sua famiglia. Risulta infatti che due suoi discendenti in linea materna – Pietro Antonio e Giovanni di Portogallo Colon Conti della Puela e della Veragua – siano abbastanza inesplicabilmente sepolti in una cappella di San Bernardino alle Ossa, fatto confermato da una lapide in loco, datata 1768, che riporta il motto di famiglia “Colon diede il nuovo mondo alla Castiglia e al Leon”. Perché son finiti lì? E’ un altro dei misteri irrisolti delle mie passeggiate.

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