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Immagine del redattoreWilma Viganò

Corso Monforte

Aggiornamento: 11 ott 2021

PALAZZO ISIMBARDI E DINTORNI


Oggi la proposta è quella di accompagnarvi a far due passi in centro e raccontarvi uno dei luoghi istituzionali ma poco cosciuti di Milano: Palazzo Isimbardi.

Palazzo indubbiamente importante che se ne sta lì, al numero 35 di corso Monforte, sospeso tra passato e futuro. Col suo passato prossimo di sede della Provincia e il futuro di Città Metropolitana. Il passato remoto risale invece a fine ‘400, quando una sconosciuta ma senz’altro nobile famiglia si fece costruire una residenza leggermente decentrata, appena fuori le mura in quella che veniva allora considerato il giardino per eccellenza di Milano: il Viridarium, da cui il nome di Vivaio della via che tutt’ora costeggia un lato del palazzo.

Nel 1552 la villa passò ai primi proprietari conosciuti, i Taverna, una delle famiglie più abbienti della città, che già possedeva un palazzo all’interno della cerchia, ma che voleva stare alla moda del tempo quando il “vivere in villa” significava per i nobili dedicarsi agli svaghi intellettuali e ai piaceri … di ogni genere. In tutti i sensi.

Con i danée dei Taverna, la villa fu trasformata in palazzo, con tanto di cortile d’onore e relativo loggiato. L’ala signorile, su due piani, guardava – e guarda tuttora - verso il giardino e le due facciate, quella interna da campagna e quella esterna da città, non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra: l’esterno su corso Monforte è un lezioso barocchetto lombardo, mentre l’interno, sconosciuto ai più, è neoclassico.

Il carattere a quel tempo appartato e periferico del palazzo diede origine però ad un fattaccio che si consumò al suo interno all’inizio del Seicento. Ne è protagonista Gian Paolo Osio, il molto “poco di buono” con il quale la Monaca di Monza, al secolo Virginia Maria de Leyva, ebbe una fosca e truculenta storia di passione raccontata nel secoli dal Manzoni in giù. La faccenda era ben nota a tutti ma degenerò quando una conversa di campagna, maltrattata dall’altezzosa Suor Virginia, minacciò di denunciare la tresca. L’Osio risolse la questione a modo suo, uccidendo la tapina e gettandone la testa nel pozzo. Lo scandalo esplose e da Milano intervenne nientemeno che il cardinale Federico Borromeo. A quel punto l’Osio si diede alla fuga riuscendo ad arrivare oltre l’Adda, ma presto decise di tornare per cercare rifugio nella casa milanese del suo amico più influente, il conte Lodovico Taverna che forse nel frattempo si era pentito delle sue frequentazioni. Infatti, accolto nei sotterranei della villa di Corso Monforte, L’Osio trovò ad accoglierlo un prete per l’estrema unzione e una banda di masnadieri che lo tramortirono a bastonate. Sulla sua testa pendeva una taglia di mille scudi. Murato in una nicchia, la leggenda narra che lo sventurato si aggiri ancora oggi per i sotterranei manifestandosi in occasioni di grande tensione, come nel corso dei bombardamenti dell’ultima guerra mondiale. Anche Milano ha i suoi fantasmi.

Dopo i Taverna, la proprietà del palazzo passò di mano parecchie volte nel corso dei secoli ma il nome lo lasciarono i marchesi Isimbardi che ci abitarono dal 1775 al 1918. D’origine un po’ ariosa, gli Isimbardi venivano da Pavia e necessitavano di una residenza di prestigio per inserirsi nel “bel mondo” milanese. Rimaneggiarono quindi riccamente gli interni del palazzo con stucchi, porte laccate e lampadari di gusto veneziano. Amanti delle scienze, ne fecero un centro di studi e raccolte scientifiche. Nel 1918 altro cambio di proprietà, dal patriziato alla borghesia, con l’arrivo dell’industriale legnanese Vincenzo Tosi, che rivoluzionò gli interni rimpicciolendo le stanze per una maggiore efficienza.

Palazzo Isimbardi - Corridoio Muzio - Wilma Viganò

Infine negli anni ’30 subentra la Provincia di Milano con lo scopo di farne la propria sede di rappresentanza e cercando di restituire al palazzo la fisionomia originaria. Ma anche ampliandolo sul lato di via Vivaio con l’intervento dell’allora onnipresente architetto Giovanni Muzio. La nuova ala, in perfetto stile razionalista con tanto di torre, portali colonnati e pannelli scultorei, venne inaugurata, con perfetto tempismo, il 24 ottobre 1942, esattamente mezz’ora prima che si scatenasse su Milano il primo bombardamento della seconda guerra mondiale che mandò in frantumi i vetri di tutte le finestre. Oggi Palazzo Isimbardi è diventata sede della Città Metropolitana, cioè della futura Grande Milano con i suoi 133 Comuni e 3.200.000 abitanti.

Ma entriamo ora in visita al palazzo varcando l’antico portone di corso Monforte e ci troveremo nel Cortile d’Onore dei conti Taverna con l’armonioso loggiato e la pavimentazione rinascimentale in cotto a spina di pesce decorata con quadrelli in marmo rosa di Candoglia, lo stesso del Duomo. Su uno dei quattro lati sono stati riportati alla luce affreschi con decorazioni a festoni e grottesche, tipiche dell’epoca.

In tempi di decrescita demografica val la pena di segnalare una curiosa opera collocata in un angolo del cortile: una madre alquanto prolifica che tiene accanto a sé ben 16 figli! L’autore è Ivo Soli, uno scultore modenese che visse a Milano a metà del ‘900, le cui opere sono disseminate qua e là per la città: un angelo nel Duomo, il monumento a Carlo Porta in via Larga, una decorazione al Palazzo di Giustizia, bassorilievi vari al Monumentale e così via.

Quando la Provincia acquisì il Palazzo per farne la propria sede di rappresentanza lo trovò completamente spoglio di arredi. Tutto quanto c’è attualmente (ed è tanto!) è quindi frutto di acquisti fatti in gallerie d’arte nazionali ed internazionali, piuttosto che “avanzi” (tra virgolette naturalmente) provenienti da altri luoghi pubblici e sacrestie. Tutto il Palazzo è una serie infinita di sale, ben mantenute ed equipaggiate, di ogni dimensione e portata, ricolme di opere d’arte. Tante “locations” che si possono affittare per eventi e manifestazioni purché ovviamente in linea col il carattere istituzionale dell’ambiente.Tanto per dare un’idea, dal cortile d’onore si accede alla Sala degli Affreschi e a quella del Sacrificio, per passare a quella della Musica e a quella dei Predenovi, e così via. I nomi vengono attribuiti in funzione delle opere d’arte che ospitano. Notevole è la collezione di orologi, da tavolo e a pendolo, disseminata in ogni dove. Un vero museo.

Con lo scalone d’onore si raggiunge quindi il piano superiore dove continua la lunga teoria dei sale, salotti, corridoi, uffici. C’è la modernissima Sala Consiliare, l’atrio dei Mappamondi, la Sala dell’Antegiunta e quella della Giunta dove troneggia, sul soffitto, la più importante opera d’arte del Palazzo: un plafond su tela di Giovanbattista Tiepolo denominato “Apoteosi di Angelo della Vecchia nel segno delle virtù”. Da segnalare una bella statua di Francesco Messina raffigurante Eva cacciata dal Paradiso. Notevoli anche i lampadari, disseminati ovunque, in cristalli di Boemia o in vetri di Murano. Lo studio del Supersindaco è molto tradizionale. In stile neoclassico, era quello dei marchesi Isimbardi: soffitto affrescato in oro zecchino che celebra scienziati e filosofi dell’antichità, mentre il computer di Beppe Sala poggia su un prezioso piano della scrivania in scagliola con soggetti naturalistici dell’Ottocento. Molto bello.

Ma scendiamo ora nel parco sul retro, che nei secoli ha subito l’evoluzione da giardino all’italiana a giardino all’inglese, e che ci riserverà notevoli sorprese. Da un punto di vista naturalistico è impeccabile: magnolie e pini azzurri dell’Himalaya, faggi, ippocastani ed aceri giapponesi, oltre ad un gigantesco platano di oltre 30 metri ed un Ginkgo Biloba, l’albero di origine cinese che andava di moda nell’Ottocento.

Torre delle sirene - Wilma Viganò

Ma la scoperta la facciamo guardando verso l’alto tra Palazzo Isimbardi e quello vicino della Prefettura dove svetta una specie di “missile” in cemento armato alto quasi 22 metri. Totalmente invisibile da corso Monforte, venne costruito nel 1939 per essere la centrale d’allarme delle sirene urbane; e per questo battezzato “Torre delle sirene”. Quelle che ululano, non quelle che adulano.

In totale otto piani di cui due sotterranei. Su ogni piano le scritte con il monito mussoliniamo: “Meglio allarmati oggi che bombardati domani”. La struttura era totalmente autosufficiente. Era prevista anche una specie di bicicletta che, pedalando, serviva ad azionare l’impianto elettrico in caso di mancata erogazione della corrente. Esternamente la torre era stata decorata con statue neoclassiche nell’illusione di imbrogliare il nemico facendo credere che si trattasse di un campanile. Ma evidentemente il depistage non ha funzionato perché Palazzo Isimbardi venne pesantemente bombardato e le statue che si sono salvate sono quelle che oggi fanno bella mostra di sé in giardino.

Ma dopo i bombardamenti del ’43, la capacità offensiva del nemico era aumentata e il rifugio “a torre” non era più considerato sicuro. Venne quindi realizzato un grande bunker sotterraneo per il personale delle due strutture - Questura e Provincia - e per gli archivi segreti. Pare che, come la torre, anche questo grande bunker, al quale si accede da due ingressi infossati visibilissimi, sia tuttora in ottime condizioni con accesso garantito dai giardini di entrambi gli edifici.

Usciamo infine dal Palazzo dall’area più recente, quella che dà su via Vivaio, aggiunta, come già detto, negli anni ’30 in puro stile “funzionalista” da Giovanni Muzio, impeccabile nel suo genere e destinata agli uffici. Si racconta che il duce utilizzasse questa via di fuga anche per concedersi brevi evasioni galanti nei dintorni senza essere notato dal personale del palazzo governativo. E direi che ci sta. Ma sembra anche accertato che il convoglio con Mussolini in fuga da Milano – il 25 aprile 1945 – si mosse da Palazzo Isimbardi e fu dunque dal portone di via Vivaio 3 che Mussolini uscì andando incontro al suo destino.

Varcato l’ingresso ci ritroviamo in Largo 11 settembre 2001, indirizzo emblematico dedicato alla memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi. Qui da qualche anno è stato collocato un monumento in bronzo: l’Uomo della Luce. Ne è autore lo spagnolo Bernardì Roig e raffigura un uomo a torso nudo a grandezza naturale che risale faticosamente lungo una trave d’acciaio inclinata. L’uomo porta sulle spalle un fascio di tubi di luce fluorescente che però non illumina il suo cammino. L’ispirazione viene da alcuni versi del Purgatorio di Dante:


Facesti come quei che va di notte

che porta il lume dietro a sé e non giova,

ma dopo sé fa le persone dotte.


L’opera sarebbe stata concepita per restare con le luci accese tutto l’anno, fatta eccezione per il 9 maggio, Giornata della Memoria istituita nell’anniversario dell’uccisione di Aldo Moro. In quel giorno le luci dovrebbero venir spente mentre sulla piazzetta si svolge una cerimonia che commemora di tutte le vittime di attentati nel nostro Paese. Parlo al condizionale perché la luce mi risulta spenta per la maggior parte del tempo, mentre la cerimonia pare che continui ad aver luogo.


Ma prima di lasciarvi vi conduco ad ammirare un’ultima curiosità.

Basta attraversare la strada e, lungo corso Monforte, al numero 43 troverete una bella casa Liberty.

Guardate in basso e, su una bocca di lupo, potrete incontrare il gatto più famoso di Milano mentre scruta i passanti dal 1889. In lamina di metallo, con tanto di baffi e coda lunga arricciata, ti guarda fisso con occhi curiosi e penetranti che brillano nel nero della sua sagoma. Il gatto è opera di Alessandro Mazzucotelli, il mago del ferro battuto che tra l’Ottocento e il Novecento ha rivestito di rose, farfalle e girasoli le più belle case in stile floreale di Milano. Sembra che oltre al gatto, nell’ultima bocca di lupo del palazzo ci fosse anche un topolino, ma ormai non resta che la cornice di ferro vuota. Si dice che il topo sia stato rubato, ma magari il gatto se l’è proprio mangiato.

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