Continuiamo la passeggiata iniziata nella puntata precedente con la visita alla pomposità e ricchezza di Sant’Alessandro, per scoprire quel che è rimasto di un’altra gloriosa piazza (che altro non è che il retro di quella precedente) e con persino più antichi e storici precedenti della sua peraltro nobilissima vicina.
Ci troviamo infatti in piazza Missori, oggi così denominata per via del monumento dedicato al colonnello Missori, che si erge (vorrei dire maestoso ma non lo è) sulla parte posteriore delle scuole arcimbolde. Giuseppe Missori fu un glorioso (e questo lo posso dire) eroe sia delle Cinque Giornate che della spedizione dei Mille, dove aveva salvato la vita nientemeno che a Giuseppe Garibaldi.
Meritava dunque senz’altro un monumento, ma quando l’opera, a firma di Riccardo Ripamonti, venne inaugurata nel 1916, sollevò non poche perplessità.
Innanzi tutto per la contrapposizione espressiva tra il guerriero baldanzoso che rientra a Milano dalle spedizioni belliche e il povero cavallo sfiancato dalle battaglie e dal viaggio. L’idea dell’autore era quella di rifuggire i canoni tradizionali dell’epoca, rappresentando elementi di pacato realismo, soprattutto nella figura del cavallo.
Spirito che però non venne recepito dal popolino, che da allora, con l’abituale pungente ironia dei Milanesi, quando incontrano qualcuno stanco e abbattuto lo apostrofano con un gagliardo “Te pàret el caval del Missori!” (Sembri il cavallo del Missori!). Il fatto è che un po’ tutta l’opera venne realizzata al risparmio. Innanzi tutto utilizzando per la fusione vecchi cannoni. E fin qui ci sta. Poi ponendola su un basamento bassissimo che lega, nel suo verismo forse un po’ esagerato, il cavallo alla strada. Anche questa indubbiamente una trovata innovativa, ma vallo a spiegare ai critici e alla gente che si aspettava i soliti orpelli di leoni accovacciati, fasci d’arme e d’alloro, scudi di Roma e tutto il resto. Ed infine il fatto, venuto poi alla luce, che il Ripamonti aveva riciclato nella bestia ammosciata, con modeste varianti, una propria scultura di dieci anni prima, titolata “Waterloo”, ed esibita a Parigi nel padiglione delle Arti all’Esposizione Universale del 1906. Insomma un’opera non del tutto riuscita ma alla quale i milanesi tutto sommato si sono ormai affezionati.
Ma torniamo all’antico. La zona dell’attuale piazza Missori, ai tempi romani, era centralissima, ancor più centrale di piazza Duomo, e se scendete un attimo nella stazione del metro (linea 3 gialla) troverete, purtroppo parecchio nascosta, una specie di teca/vetrina dove sono assembrati i pezzi del lastricato venuti alla luce durante gli scavi per la metropolitana e che ci mostrano l’incrocio di due vie, cioè il cardo e la strada che portava a Porta Argentea e alle Terme Erculee, dove oggi si trova piazza dei Mercanti.
Ora facciamo un balzo in avanti di oltre un millennio, quando all’inizio del 1300, sulla parte destra della piazza, sorgeva la turrita Ca’ di Can (Casa dei cani), la temutissima dimora fatta erigere da Bernabò Visconti sul luogo della vecchia canonica della vicina chiesa. L’edificio venne così denominato dai milanesi (che hanno un nome per tutto) per via delle centinaia di mastini che, oltre alla famiglia, vi risiedevano. Le bestie, feroci e latranti, erano compagnia inseparabile nelle battute di caccia del Signore di Milano, ma venivano altresì aizzate contro i nemici di genere umano. E ci sono molte terribili leggende in proposito che non mi sembra il caso di rivangare. E l’odio dei milanesi era vieppiù alimentato dal fatto che molti altri cani erano di forza distribuiti presso i sudditi, che dovevano provvedere al loro mantenimento con precise leggi e pene molto severe per chi avesse osato trasgredire. Cosicché quando Bernabò venne spodestato dal nipote Gian Galeazzo Visconti e ucciso con una minestra di fagioli avvelenata propinatagli nel castello di Trezzo dove era tenuto prigioniero, il palazzo venne simbolicamente lasciato in preda al popolo che lo saccheggiò per vendetta. Distrutto da un incendio, l’edificio venne riscostruito nell’Ottocento dalla famiglia Carli, commercianti in seta, per poi passare nel 1946 al Comune di Milano che lo demolì per far spazio all’attuale Hotel dei Cavalieri, dove oggi possiamo concederci una pausa caffè.
Dopo il caffè, torniamo al centro della piazza e all’infelice “residuo”, non saprei come altro definirlo, che vi è collocato. Veramente i milanesi una definizione, al solito irriverente, l’hanno trovata eccome! Hanno infatti ribattezzato il tra’ insema di un frammento di abside, una finestrina e qualche residuato di epoca paleocristiana, medievale e bramantesca “el dent cariaa” (il dente cariato) messo lì in qualche modo al seguito di uno scempio urbano perpetrato nel dopoguerra e che ambiva a reinventare la viabilità della zona. Il fatto è che la dedica della piazza a Giuseppe Missori è relativamente recente, mentre, fin dal primo millennio, la piazza aveva preso il nome, come spesso avviene, dall’importante chiesa che ospitava fin dall’Alto Medio Evo. La chiesa era dedicata a San Giovanni ed era detta “in Conca” forse per un avvallamento del terreno nel quale è miracolosamente adagiata ancor oggi la cripta. Cripta che svela a sua volta, ancora più sotto, i resti di una residenza privata romana di epoca paleocristiana. Insomma strati su strati di antiche civiltà.
La chiesa era stata fondata nel IV secolo, riedificata, distrutta dal Barbarossa e ricostruita nel XIII secolo dal Bernabò Visconti di cui sopra, che riteneva comodo ed opportuno avere la cappella di famiglia sotto casa, la famigerata Ca’ di Can, In stile goticheggiante italiano, la chiesa era ricca di affreschi ed era famosa per ospitare nell’abside il celeberrimo monumento sepolcrale commissionato in vita dallo stesso Bernabò, monumento che oggi possiamo ammirare al Castello Sforzesco. La grandiosa opera era originariamente coperta di lamine d’oro ed era stata collocata proprio dietro l’altar maggiore in modo che lo scintillio dell’oro oscurasse le immagini sacre che la circondavano, ed affermasse in questo modo l’assoluto dominio di Bernabò sulla città.
Finita l’era dei Visconti, la chiesa entrò in possesso dell’ordine dei carmelitani che l’abbellirono ulteriormente con una facciata barocca. Era insomma un gran bel edificio che però non fermò la furia distruttrice prima degli austriaci e poi dei francesi: sconsacrata, venne ridotta a magazzino e le opere d’arte disseminate per la città, con le tombe di Bernabò e della moglie Regina traslate in una controfacciata della vicina chiesa di Sant’Alessandro.
Ma non è finita.
Nel 1884, per permettere l’apertura di via Mazzini, gli urbanisti del tempo tagliarono di netto la parte anteriore (navate e campanile tra i più alti di Milano) appiccicando la facciata a ridosso dell’abside, e l’edificio “incerottato” per così dire venne ceduto ai Valdesi, che la rappezzarono a loro volta al meglio utilizzandola sino al 1945, quando vennero a loro volta sfrattati e trasferiti all’inizio di via Francesco Sforza. I valdesi però si portarono giustamente appresso la storica facciata che è oggi utilizzata come fronte del loro nuovo tempio.
Tristemente, quel che resta in loco dell’antica e sontuosa chiesa di San Giovanni in Conca è il dent cariaa, ma per fortuna allo scempio totale di superficie è sopravvissuta la meravigliosa cripta romana, visitabile gratuitamente in alcune giornate grazie ai volontari del Touring Club.
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