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  • Immagine del redattoreWilma Viganò

RAVANEI, REMULASS, BARBABIETUL E SPINASS - 2

Proseguiamo il nostro itinerario gastronomico milanese.

Dopo il risotto giallo, il formaggio grana e la cotoletta della puntata precedente, propongo di esplorare le origini del nostro dolce per eccellenza: il panettone.

E per questo simbolo natalizio, diventato tale in tutta Italia e nel mondo, esistono almeno un paio di narrazioni. Che però coincidono sui tempi, e che quindi devono essere più o meno giusti.

I tempi sono quelli di Ludovico il Moro, cioè la seconda metà del Quattrocento, proprio mentre Leonardo era impegnato a dipingere “L’ultima cena” nel refettorio di Santa Maria delle Grazie.

Ed è proprio dalla Contrada delle Grazie, e più precisamente dalla Casa degli Atellani, che ebbe inizio il tutto. Gli Atellani, provenienti da Atella in Basilicata, si erano arricchiti col mestiere delle armi e il Moro, per compensarli, aveva loro donato una ricca residenza nel nuovo quartiere di Porta Vercellina, una sorta di Milano 2 dell’epoca. Qui gli Atellani organizzavano favolose feste descritte in molte cronache dell’epoca. Feste alle quali però non partecipava l’erede, messer Giacometto degli Atellani, falconiere, un ragazzo introverso e segretamente innamorato di Algisa, la figlia del fornaio della zona, a cui per la verità gli affari non andavano granché bene.

Ça va sans dire che la relazione era fortemente osteggiata dai so’ de lû. Fu così che Ughetto, come lo chiamavano gli amici, decise molto pragmaticamente, alla milanese, di far succedere qualcosa per stare vicino all’amata, e si fece assumere come garzone, sotto mentite spoglie naturalmente, dal padre dell’Algisa.

Entrato in azienda, diremmo oggi, si rese conto che per battere la concorrenza bisognava differenziarsi, migliorare il prodotto, investire in materie prime più attraenti e gustose. Fu così che per finanziare l’acquisto di ottimo burro, cedri canditi, uova fresche e uvette arrivò persino a vendere la sua collezione di falchi. E per Natale lanciò il nuovo pane che aveva elaborato puntando sulla qualità: un pane gustosissimo, grande e grosso come voleva la tradizione perché doveva essere servito a tutti i membri della famiglia come augurio di fortuna e buona salute. Il “pan grande” ebbe immediatamente uno strepitoso successo: era nato il panettone! Quanto a Ughetto e Algisa coronarono naturalmente il loro sogno d’amore e vissero per sempre felici e contenti.

La seconda versione sulla nascita del panettone ci porta invece al Castello, alla corte di Ludovico il Moro dove, per Natale, era stato allestito un sontuoso banchetto con ospiti altolocati provenienti da ogni dove. E il lavoro in cucina era talmente frenetico che il dolce venne dimenticato nel forno e si carbonizzò. Panico e disperazione del cuoco a cui venne in aiuto Toni, un giovane sguattero appena assunto, che offrì spontaneamente il pandolce che aveva preparato per i suoi colleghi con gli avanzi rimasti in dispensa (sempre un po’ di farina, burro, uova, scorza di cedro e qualche uvetta). Il cuoco, tremante e disperato, acconsentì a portarlo in tavola e tale fu l’apprezzamento del Duca e dei suoi ospiti, che il cuoco venne convocato per sapere il nome di tale prelibatezza. E il cuoco sinceramente rivelò il segreto: “L’è el pan del Togn” (è il pane del Toni). Da allora, panettone.

Anche l’origine della colomba pasquale si perde nel tempo. A partire dalla regina Teodolinda che fece la gaffe di offrire selvaggina in tempo di Quaresima a San Colombano riscattandosi poi con un pane a forma di colomba della pace. Piuttosto che re Alboino che evitò addirittura il saccheggio di Pavia, rabbonito dai soffici pani offerti dagli abitanti della città. Ma la storia preferita dai milanesi è quella che fa risalire la creazione del dolce a forma di colomba al ricordo e celebrazione delle tre candide colombine (a rappresentare i tre martiri della val di Non sepolti in San Simpliciano) che andarono a posarsi sull’altare del Carroccio durante la battaglia di Legnano del 1176. Alla vista della colombe, i combattenti della Lega Lombarda ripresero forza e vigore sino a determinare la completa disfatta del Barbarossa. E per ricordare l’episodio sino a qualche tempo fa, nell’anniversario della battaglia, si celebrava in San Simpliciano una Messa durante la quale era dato il volo a tre colombe.


Ma sia la storia del panettone che quella della colomba possono essere suddivise in due tempi: quella dell’artigianalità e quella della produzione industriale e della grande distribuzione, entrambe ovviamente, di matrice milanese.

Dell’artigianalità abbiamo detto, mentre il secondo tempo porta il nome di Angelo Motta, un intraprendente pasticcere di Gessate che nel 1919 aprì il suo primo negozio milanese in via della Chiusa. Fu allora che riprese l’antica tradizione della lievitazione naturale del panettone (che richiede del tempo), ne modificò la forma inaugurando il panettone alto a cupola di battistero (sul quale viene tracciata una croce secondo l’uso dei refettori dei conventi) e ne rivoluzionò l’impasto rendendolo più soffice. Il successo fu travolgente tanto da permettergli l’apertura, nel 1930, del grande stabilimento di viale Corsica dove iniziò una geniale diversificazione dei prodotti, inventando tra tanto altro il primo gelato col bastoncino (il mitico Mottarello) e dove ebbe luce l’altro fondamentale dolce aziendale, la colomba da consumarsi in occasione della Pasqua.

A dire il vero la colomba ha un altro padrino, e cioè Dino Villani, una delle grandi figure della pubblicità italiana, che negli anni ’30 si pose il problema di come rendere più produttivo lo stabilimento di viale Corsica che, per via della stagionalità natalizia dei panettoni, costringeva a casa gli operai per buona parte dell’anno. E l’idea fu quella di utilizzare l’impasto e i macchinari del dolce natalizio per creare un nuovo dolce pasquale. La ricetta in effetti è molto simile a quella del panettone (con le bucce d’arancia candite al posto dell’uvetta e una copertura di glassa di mandorle), ma la grande intuizione fu quella della forma, cioè la colomba, che la legherà indissolubilmente alla Pasqua. E il successo fu ulteriormente amplificato dallo slogan inventato per il lancio dall’ufficio marketing dell’azienda (che allora si chiamava Ufficio di Propaganda) di cui Villani era direttore. “Il dolce che sa di primavera” definì infatti emotivamente un prodotto che sembra fluttuare nell’aria della nuova, dolce stagione.


Ma non possiamo concludere questa panoramica della cucina milanese senza raccontare la storia dell’esperienza, diciamo più pregnante, per gli eventuali commensali: la cassoeula. Alla quale abbiamo già fatto cenno nel corso della puntata n. 47 descrivendo la splendida chiesa e i chiostri di Sant’Antonio Abate di via Sant’Antonio di fianco all’Università Statale. E assolutamente da visitare! La storia della cassoeula è molto antica; risale infatti al Medio Evo quando gli unici ospedali erano i conventi dei monaci e i frati Antoniani (cioè i seguaci di Sant’Antonio Abate, non quello di Padova) pare fossero i più bravi nella cura dell’herpes zoster, altrimenti detto “fuoco sacro”, malattia della pelle molto dolorosa come possono testimoniare tutti quelli che l’hanno provata.

Ma i nostri bravi monaci avevano scoperto un unguento, ricavato dalla carne dei maiali, che ne leniva il dolore e le loro cure risultarono talmente efficaci da cambiare la denominazione della malattia che da allora tutti conosciamo come “fuoco di Sant’Antonio”. E per ovvie ragioni di autofinanziamento, al convento si allevavano porci ai quali i Visconti permisero addirittura la libera circolazione per la città rendendoli riconoscibili a vista con una T marchiata sui posteriori. La strana usanza ebbe fine nel 1548 quando il governatore Ferrante Gonzaga la abolì per “il brutto puzzare” della città, mentre la cura dell’herpes venne delegata alla nuova sede di medicina centralizzata della Ca’ Granda.

Ai milanesi resta però la fantastica tradizione culinaria derivata da quell’antica stagione, la cassoeula, piatto tipico legato alla festa di Sant’Antonio che si celebra il 17 gennaio e che ricorda la data che segnava la fine del periodo di macellazione dei maiali. E i tagli di carne utilizzati dai frati per la cassoeula erano quelli economici, avanzati dai medicamenti, ma ideali per insaporire la verza gelata, elemento basilare della cucina lombarda invernale. Oggi le cassoeule sono “reinterpretate” e tutt’altro che povere (anzi!), ma se le cucinate o le ordinate al ristorante… beh, quella è la prova che siete proprio di Milano!


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