I documentari e soprattutto le docuserie hanno fatto spesso capolino da queste parti perché mi appassionano al pari delle serie TV.
Non sono la sola a giudicare dai riscontri, in termini di classifiche – in particolare alcuni titoli - e di adattamenti televisivi tratti proprio da documentari (un paio che mi vengono in mente: Tiger King e Dirty John – podcast, serie e docufilm).
Dopo aver visto X puntate con i veri protagonisti e con un taglio - si spera sempre – obiettivo, guardarsi la serie TV può rappresentare una delusione.
Sono partita quindi un po’ scettica quando ho sentito parlare dell’adattamento televisivo di una docuserie true crime vista tempo fa su Netflix: The Staircase.
La vicenda è decisamente singolare e cerco di riassumerla senza sbilanciarmi troppo in modo possiate vederla e farvi una vostra opinione senza condizionamenti.
Michael Peterson è un veterano di guerra e scrittore, vive nel quartiere di Forest Hills a Durham - North Carolina, con la seconda moglie Kathleen Atwater e 5 figli, tre avuti da precedenti matrimoni e due adottati da Peterson dopo che la morte della loro madre, amica di famiglia.
Il 9 dicembre 2001, Michael chiama il 911 per segnalare che Kathleen ha avuto un’incidente, è caduta dalle scale. I soccorritori arrivati sul posto però non possono fare nulla per salvarla, la donna è già morta. C’è molto sangue…fatalità o omicidio? I sospetti cadono subito su Peterson, da qui parte tutto, perché un regista francese - Jean-Xavier de Lestrade - già premio Oscar per un altro documentario basato su un caso di cronaca nera e relativo processo - decide di seguire la vicenda filmando la vita dell’accusato e della sua famiglia, gli avvocati e gli investigatori dell’accusa, della difesa e il processo in cui non mancano colpi di scena clamorosi.
Nell’ottobre del 2004 su Canal + esce Soupçons, noto anche come Death on the Staircase, documentario in 8 parti in lingua inglese.
De Lestrade è tornato poi a filmare Peterson e la sua famiglia nel 2012-2013, coprendo gli sviluppi del caso che sono stati rilasciati come sequel di due ore. Successivamente sono stati realizzati tre nuovi episodi con ulteriori aggiornamenti per Netflix e nel 2018 il canale di streaming ha aggiunto tutti i 13 episodi al proprio catalogo, rendendolo disponibile come una docuserie. C’è anche un breve video con la teoria della civetta/gufo…da guardare per ultimo!
L’accoglienza della docuserie è stata positiva e di questo singolare caso si è parlato a lungo negli Stati Uniti all’interno di altri programmi dedicati al crime (c’è anche una parodia in Trial & Error), fino ad arrivare alla miniserie in 8 puntate prodotta da HBO Max in onda negli Stati Uniti dal 5 maggio al 9 giugno e da noi su Sky Atlantic dal 8 giugno (due episodi alla settimana fino al 29).
Come ho detto all’inizio ero dubbiosa. Perché rielaborare un documentario già così articolato? Cosa può dirci di più? È solo un esercizio di stile e una sfida per gli attori chiamati ad interpretare i protagonisti?
Il taglio è diverso perché prende in considerazione chi era davanti alla telecamere, ma anche chi c’era dietro, compreso lo stesso de Lestrade e in generale tutta la produzione.
In alcuni casi la somiglianza tra attori e i reali protagonisti è impressionante, ma senza caricature e Colin Firth pur non somigliando fisicamente a Michael Peterson ce lo ricorda nel modo di parlare (ottima interpretazione a mio avviso).
"Il vantaggio di una drammatizzazione – scrive Wenlei Ma su sito australiano di news.com - è che non c'è quella stretta aderenza alla fedeltà che significa la possibilità di raccontare la storia dell'unica persona che in precedenza non aveva un ruolo importante: Kathleen. (Toni) Colette riporta in vita la donna la cui fine spinosa guida tutto nella storia, ma questa volta non sono i ricordi e le relazioni di coloro che l'hanno conosciuta. È in grado di esistere a pieno titolo, in scene da sola. Non è solo un cadavere all'obitorio o una serie di orribili foto del crimine."
Anche in questo caso le recensioni positive alla miniserie targata HBO Max non mancano, ma non sono dello stesso avviso il regista e i produttori del documentario che si sono sentiti “traditi”.
Lo riporta Vanity Fair e sono diverse le critiche mosse. De Lestrade risulta co-produttore esecutivo, ma ha affidato ad Antonio Campos – regista della miniserie - tutte le decisioni creative, oltre all’accesso a tutto quanto girato, senza mai chiedere di leggere la sceneggiatura.
In particolare si sofferma sul alcune parti della miniserie, come la discussione su cosa tenere o tagliare per aiutare Peterson all’appello o la storia nata tra quest’ultimo e la produttrice Sophie Brunet (interpretata da Juliette Binoche) realmente avvenuta, ma dopo la fine delle montaggio. Insomma il loro lavoro e la loro obbiettività ne risultano – a loro avviso – compromesse.
Nessuno della famiglia e lo stesso Peterson hanno commentato la miniserie, ma sul tema è intervenuto l’ex avvocato David Rudolf, che ha dichiarato: "L'insinuazione che de Lestrade abbia realizzato il documentario con l'intenzione di scagionare Michael è semplicemente sbagliata e completamente ingiusta. Voglio dire, c'erano molte riprese che avrebbe potuto includere nel documentario che sarebbero state favorevoli a Michael che non sono arrivate al montaggio finale.”
(queste dichiarazioni le ho trovate su Hello Magazine).
Non spoilero nulla, ma vi aggiorno solo sul protagonista della vicenda: oggi Peterson ha 78 anni, vive sempre a Durham in un appartamento al piano terra senza scale e ha ripreso a scrivere romanzi di guerra, oltre a due libri quanto ha vissuto: Behind the Staircase e Beyond the Staircase.
Concludo consigliando la visione prima della docuserie (13 episodi su Netflix) e successivamente della miniserie su Sky…in alcune parti – soprattutto quelle del processo - ci sarà l’effetto dejà vue col rischio di annoiarsi, ma tenete duro!
Foto di copertina Courtesy of HBO Max
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