A Milano, si sa, c’è il quadrilatero della moda, con tutti i marchi del lusso, le vetrine che incantano, i tycoon e le signore dei magnati del petrolio, le modelle e le Ferrari… insomma il “lusso ben fatto” che una volta ogni tanto non dispiace nemmeno adocchiare. Ma basta attraversare la strada, cioè corso Venezia, per scoprire un altro quadrilatero, quello del silenzio, molto meno conosciuto ma di gran classe. La vera classe milanese per intenderci, fatta di riservatezza, silenzio, operosità e amore per le arti.
E proprio verso il quadrilatero del silenzio - idealmente disegnato tra via Serbelloni, via Mozart, via Cappuccini e via Vivaio - ci avviamo oggi discretamente tra residenze con architetture dal neoclassico all’eclettico, dal Liberty al déco, intravvedendo giardini segreti, decori e qualche interessante curiosità. Il tutto avvolto in atmosfere d’altri tempi, ma perfettamente calato nella vita e nelle attività della Milano di oggi. In ogni caso meglio andarci il mattino di un giorno feriale, quando gli androni sono aperti e si può chiedere a qualche portiere gentile di sbirciare negli ingressi.
La prima tappa del nostro giro è in via Serbelloni al 10 dove troviamo l’ingresso secondario di un palazzotto degli anni Trenta del Novecento conosciuto come Palazzo Sola-Busca. L’edificio di per sé non è particolarmente degno di nota come parecchi suoi vicini, ma è famoso a Milano perché qui venne installato il primo citofono della città, e forse d’Italia. Un ritrovato della tecnica assolutamente innovativo per quei tempi che i padroni di casa si sentirono in dovere di celebrare trasformandolo in un’opera d’arte. Ecco dunque la committenza di una scultura nientepopodimeno che ad Adolfo Wildt, uno dei maggiori scultori e medaglisti dell’epoca, che rivestì il microfono esterno della struttura con un grande orecchio in bronzo verde condannando l’edificio ad essere da allora conosciuto come “Ca’ dell’oreggia”, cioè casa dell’orecchio. Si mormora che Wildt, per vivacizzare i toni freddi-verdognoli del bronzo, utilizzasse ripassare le superfici con sterco fresco di cavallo oppure, in alternativa, con una tintura ottenuta facendo bollire in acqua tabacco, bucce di cipolla rossa e zucchero. Il risultato finale è comunque piaciuto molto qualche anno fa ad Eugenio Finardi che l’ha riprodotto sulla copertina del suo album “Acustica”, e piace molto anche ai turisti che vi bisbigliano un desiderio che pare destinato ad avverarsi. E visto che non costa niente perché non crederci?
E dopo aver sussurrato il nostro desiderio, avviamoci verso via Cappuccini, dove al numero 8 troviamo il nostro piccolo Gaudì milanese: un palazzo costruito nel 1913 dall’architetto piacentino Giulio Ulisse Arata per le famiglie Berri-Meregalli che è quanto di più “eclettico” si possa immaginare, tanto da provocare un certo senso di straniamento quando si cerca di interpretarlo. La prima impressione – o almeno la mia – è di neo gotico un po’ cupo, ma non manca il romanico, con tocchi di Liberty e di barocco, pennellate di bizantino ed elementi rinascimentali. Insomma, come si dice a Milano: non manca niente. Anche con i materiali non si sono risparmiati: bugnato, pietra, mattoni a vista, ferri battuti, mosaici colorati, affreschi… per non parlare degli elementi decorativi che comprendono arieti, pesci, cani, leoni e altre strane figure oltre alle classiche sculture. Indubbiamente molto graziosi, nella parte alta, i puttini, che formano una specie di fregio in movimento.
Ma la parte assolutamente da visitare è l’ingresso, dove un cortese portiere concede persino di scattare foto (l’edificio è abitato da privati). Qui, in pura atmosfera neogotica, si possono innanzi tutto ammirare i ferri battuti di Alessandro Mazzucotelli, il più prestigioso artista milanese del ferro, gli affreschi della lunetta, il soffitto a cassettoni pittato ed una bizzarra fontanella decorata con vivacissimi mosaici. Ma il pezzo forte dell’androne è la statua Liberty collocata sullo sfondo dei ferri battuti del Mazzucotelli: è la Vittoria alata di Adolfo Wildt (di nuovo l’artista dell’orecchio) una testa a siluro con le ali molto suggestiva. Per descriverla, lascio la parola a Margherita Sarfatti, la critica d’arte e amante di Mussolini dalla quale il duce ricevette indubbi contributi nella sua affermazione sociale.
Per l’inaugurazione della statua nel 1919 la Sarfatti scriveva
E ci ha dato egli, oggi, la realtà di un sogno: la Vittoria. La sua Vittoria; la nostra; la Vittoria d’Italia. Egli ha rinnovato, modernamente, e con una vera e definitiva opera d’arte, l’abusato simbolo della Divinità immortale. Non ha corpo, la sua Vittoria: è fulminea come il pensiero, lanciata in avanti, solo impeto aguzzo e solo ala impennata: prora di nave e fusoliera di aeroplano.
Beh, io non avrei senz’altro potuto descriverla meglio!
Ma continuiamo nella nostra passeggiata e dopo pochi passi raggiungiamo via Mozart dove non c’è che l’imbarazzo della scelta. E cominciamo dalla destinazione più nota, villa Necchi Campiglio, molto visitata perché da parecchi anni è un bene del FAI, il Fondo Ambiente Italiano. Progettata dall’architetto Piero Portaluppi per le sorelle Nedda e Gigina Necchi e il marito di quest’ultima Angelo Campiglio (tipici esponenti della borghesia industriale lombarda), la residenza ci trascina nell’atmosfera milanese di inizio Novecento, con i suoi riti mondani, gli impeccabili arredi déco perfettamente conservati, gli oggetti d’uso quotidiano… ma anche importanti opere d’arte. Per non parlare del bellissimo giardino, aperto a tutti con tanto di campo da tennis e piscina esterna, una tra le prime private in città. La villa ha avuto una botta di popolarità qualche anno fa quando venne scelta come ambientazione del film di Luca Guadagnino “Io sono l’amore” che racconta le vicende di una famiglia dell’alta borghesia lombarda. La sofisticata eleganza “alla milanese” della protagonista Tilda Swinton valse al film una nomination agli Oscar per i migliori costumi. Ulteriore curiosità: i piatti che compaiono nelle scene gastronomiche del film furono realizzati da Carlo Cracco. Tanto per dire l’accuratezza della scenografia.
Ma attraversiamo la strada e proprio di fronte ci appare Villa Zanoletti, oggi Villa Mozart, completamente ricoperta d’edera e piante rampicanti da ben prima che scoppiasse la moda dei boschi sui grattacieli. Progettata nel 1926 dall’architetto Aldo Andreani in una parte del giardino della proprietà Serbelloni, è un altro capolavoro déco con cancelli in ferro battuto e grate alle finestre firmate dal solito Mazzucotelli. Per anni sede del Rotary Milano, ospita oggi la Maison di alta gioielleria di Giampiero Bodino.
Sempre dell’Andreani è l’altra incredibile attrazione della zona: Palazzo Fidia, che incrociamo all’angolo di via Mozart con via Melegari.
Si tratta di una costruzione di nove piani che è un frullato tra art déco ed ecclettismo puro. Raccontarlo è un po’ difficile: superfici arretrate e sporgenze, mensole, puntali, finestre di ogni foggia immaginabile, bow-windows tonde, cornici, archetti, nicchie e pensiline, timpani e balaustre, pigne e pinnacoli. E continuate pure voi: ci sarà senz’altro! Il tutto rivestito coi più tipici materiale lombardi - mattoni e ceppi - in tutte le varietà cromatiche disponibili, con l’aggiunta di vivaci tocchi di colore, qua e là, nelle parti intonacate. Fin dalla sua costruzione il palazzo sollevò un vespaio di commenti. Il più divertente, a mio avviso, è quello di un anonimo che lo definì “jazz architettonico”. Ma ci furono altri che lo considerarono “sarabanda sfrenata”, “sonoro ceffone a tutti i bigotti della tradizione”, sino ad “esperimento architettonico d’un pittoresco e di un impensato veramente sconcertanti”.
Beh, la scelta non manca!
Pregevole l’ingresso: marmi raffinatissimi, linee impeccabili, nicchie alle pareti. E persino un affresco d’ispirazione campestre.
Ingresso talmente evocativo che venne scelto nel 1950 da Michelangelo Antonioni per il suo primo film “Cronaca di un amore”. Fu in quest’ambiente che una fascinosa Lucia Bosè, fasciata in un impeccabile abito da sera, si appoggia disperata al portale in pietra del palazzo mentre vede l’amante allontanarsi in taxi. Ma la vera meraviglia è in fondo all’ingresso. Uno straordinario scalone in marmo dalla sinuose linee elicoidali che si snoda all’infinito verso l’alto, proteso come un’ascesa verso il cielo. Tutto da vedere. E il portiere è molto gentile…
Ma chiudiamo il cerchio, anzi il quadrilatero della nostra passeggiata, ritornando in via Cappuccini dove, al numero 7, sbirciando nel lussureggiante giardino, troviamo l’attrazione esotica forse più famosa di Milano: i celeberrimi fenicotteri rosa di Villa Invernizzi. Qui abitava la famiglia di Romeo Invernizzi, il “re dei formaggi” nonché padre del celebre formaggino “Mio”. Bene, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, i fenicotteri rosa non furono una capriccio della padrona di casa ma la passione di suo marito, il Cavalier Invernizzi in persona, che amava ammirarli per ore dal suo studio con grandi vetrate al piano terra della residenza. Li aveva importati - quando era ancora permesso - direttamente dall’Africa e dal Cile, e per loro acquistò e demolì un palazzo adiacente alla villa per creare un’oasi naturale con tanto di piscina. E gli attuali fenicotteri, ormai di seconda generazione, sono ancora lì, anche perché tutelati dalle volontà testamentarie del patron Invernizzi. L’impeccabile trattamento e le condizioni ambientali ne hanno favorito la riproduzione tanto che ne vengono regolarmente esportati un certo numero al parco zoologico di Verde nei pressi di Lignano Sabbiadoro.
E con questa esotica visione rosata chiudiamo il nostro quadrilatero del silenzio
Comments