Oggi la proposta è quella di andare in gita appena fuori le mura. E ci possiamo andare in macchina o, meglio ancora, in bicicletta. Il che vi dà l’idea della vicinanza.
Siamo nel Parco Sud, lungo la Vettabbia, e precisamente a Viboldone, una piccola frazione di San Giuliano Milanese dove, vi assicuro, ad un certo punto vi sembrerà di avere una visione. Improvvisamente, dopo aver superato una lunga sfilza di casermoni e con gli aerei di Linate che vi svolazzano sopra la testa, vi apparirà una grande e lussureggiante oasi verde dove il tempo sembra essersi fermato. Milano sembra distante anni luce.
Siamo arrivati infatti in uno dei complessi medievali più importanti della Lombardia, un rifugio di pace e tranquillità circondato da campi coltivati a riso e grano, un tempo abitato da salariati agricoli ed ora quasi del tutto spopolato. Un po’ come fantasmi ci si aggira tra le vecchie case coloniche, la stazione di posta che risale ai tempi dei Romani, fino alla «Cà de parol» (come la chiamavano i contadini di un tempo, cioè la Casa delle Parole), un antico edificio lungo la strada con iscrizioni in latino.
Ma al centro del borgo sfavilla, proprio come un diamante, l’antica abbazia di Viboldone con l’inconfondibile campanile a punta, che pare il cardinale Martini benedisse dal finestrino dell’aereo ogni volta che rientrava da Roma. E la benedizione era diretta alle 22 monache benedettine che oggi abitano e mantengono vivo il convento. E come lo mantengono!
La storia del complesso parte da lontano, e precisamente dal 1176, anno della sconfitta del Barbarossa, quando Milano ricominciava a vivere. E nella Bassa a sud della città, in un villaggio agricolo tra il Lambro e la Vettabbia, arrivano gli Umiliati e vi si insediano, dotandosi di un convento e relativa chiesa dedicata a San Pietro. I frati, come dice il loro nome, sono “umili” e laboriosi: bonificano i terreni paludosi, incanalano le acque e rendono fertili i terreni, condividendo con i poveri i ricavati del proprio lavoro.
Erano bravi gli Umiliati, e praticavano una specializzazione molto faticosa e disdegnata dai più: il lavaggio dei boldroni (cioè le pelli di pecora non tosate) e la follatura di panni di lana, lavori che venivano svolti lungo corsi d’acqua e ben lontani dalla vita cittadina. E questo per una comprensibilissima ragione: per la concia e per fissare i colori occorre un reagente acido, che poteva essere l’aceto, costosissimo, o l’urina, che era gratis e ne potevi avere a fiumi. Bastava raccoglierla. Un inciso. Ne sapeva qualcosa di questo processo l’imperatore Vespasiano che ebbe la bella pensata di mettere una tassa sui numerosi orinatoi di Roma che da allora gli furono dedicati, i Vespasiani appunto, e per i quali passò alla storia. Va altresì ricordato che tale tassa gonfiò a dismisura le casse dell’impero, favorendo così la costruzione di un grande anfiteatro, il Colosseo, ancor oggi simbolo immortale dell’antica Roma, e che fu quindi principalmente finanziato dalla tassa sulla pipì. Fine dell’inciso.
Un lavoro infernale, dunque, quello degli Umiliati, ma molto ben remunerato che li renderà nel tempo sempre più ricchi e potenti. Troppo ricchi e potenti, tant’è che arrivarono ad appaltare le funzioni manuali trasformandosi in veri e propri uomini d’affari, con investimenti in beni fondiari che assicuravano ulteriori rendite. La decadenza a quel punto fu inevitabile. Nel 1562 Carlo Borromeo cercherà di riportarli all’antica disciplina, ma loro ribattono organizzando addirittura una congiura alla quale l’arcivescovo scampa per puro miracolo. A quel punto il papa Pio V, zio del futuro santo, è inamovibile e l’ordine viene soppresso. Fine degli Umiliati.
Al loro posto si insediano gli Olivetani, una congregazione di monaci d’origine senese, un po’ randagi, che però restano a Viboldone per un paio di secoli finché il governo austriaco, nel 1773, impone la chiusura del convento. Tutti i beni agricoli vengono incamerati dall’Erario e per l’intero complesso inizia un lungo periodo di abbandono.
Finché nel 1941 il cardinale Schuster scelse proprio questo luogo per dare ospitalità, in quel che restava del convento, ad un gruppo di monache benedettine romane dette di Priscilla (per via che a Roma conducevano e santificavano i visitatori lungo le catacombe di Priscilla) e che, non essendoci catacombe dalle nostre parti, ebbero la straordinaria idea di inventarsi un nuovo lavoro: si trasformarono in tipografe, ma soprattutto archiviste e restauratrici di antichi codici, diventando ben presto, come si direbbe nel marketing, leader di mercato. Nel 1960, inoltre, il conte Aldrighetto di Castelbarco Albani, divenuto nel frattempo proprietario di tutta l’area, dona l’abbazia e la Casa del Priore alla comunità, mentre il cardinale Montini, futuro papa Paolo VI, affida all’architetto Luigi Caccia Dominioni il compito di affiancare alle antiche mura di San Paolo un nuovo complesso in grado di ospitare le attività delle monache.
Ma partiamo finalmente con la nostra visita dalla chiesa del convento, in romanico puro con qualche spruzzatina di gotico qua e là. Facciata a capanna con mattoni a vista e bifore aperte sul cielo, l’edificio esibisce un impattante portale in marmo bianco con lunetta dedicata alla Madonna con Bambino e due nicchie ai lati con le statue dei santi Pietro e Paolo, ai quali la chiesa è dedicata. Il portone in legno scuro, decorato con grossi chiodi, risale all’epoca della costruzione della facciata (databile a metà del ‘300) e in una delle due ante, che definir massicce è dir poco, è stato scavato un portoncino per entrare in chiesa.
L’interno, a tre navate, con poderose colonne in cotto che sostengono le volte a crociera, ti avvolge nella sua grandiosità, pur essendo, tutto sommato, di dimensioni abbastanza ridotte. Il fatto è che tutte le volte, bordature comprese, riportano gli straordinari decori di sconosciuti pittori trecenteschi di scuola giottesca, una mescolanza di artisti lombardi e toscani, questi ultimi venuti al nord per sfuggire alla peste che colpì Firenze nel 1338. La chiave di volta di ogni crociera è circondata da spicchi racchiusi in un cerchio con i colori dell’arcobaleno, segno dell’amicizia di Dio con gli uomini.
Sul tiburio troneggia una Madonna in Maestà e Santi fronteggiata da un inquietante Giudizio Universale, dove alla destra di Cristo stanno i “benedetti” e alla sinistra i “dannati”, sui quali incombe la figura di Satana intento a divorare le sue prede.
Abbastanza discutibile è la base rialzata in legno su cui è stato posto il nuovo altare sorretto da due antiche colonne, mentre stupisce favorevolmente la versione 2.0 delle sedute del nuovo coro dislocate al suo fianco.
Tornati all’esterno un colpo d’occhio è doveroso per ammirare l’originale campanile aguzzo innalzato sopra il tiburio della chiesa, ma anche il grande edificio di Caccia Dominioni sulla destra che funge da foresteria. La struttura comprende 12 stanze e sale comuni che ospitano singoli o gruppi per brevi ritiri spirituali. Ennesimo esempio dell’ormai abituale contrasto di architetture antiche e moderne che caratterizzano la Milano di oggi e che abbiamo tutti imparato ad apprezzare.
Ma il coup de têatre deve ancora arrivare. Se siete fortunati e vi è permesso entrare nella palazzina sulla sinistra delle chiesa, e cioè l’antica Casa del Priore, salendo alcune scale lungo le cui pareti fanno capolino pitture recuperate di ogni specie, approderete all’incredibile Sala della Musica, una originalissima testimonianza iconografica degli strumenti musicali in uso a Milano a cavallo tra il Quattro e il Cinquecento. Gli affreschi, che avvolgono tutte le pareti della sala, sono in monocromo di terra rossa su fondo bianco e rappresentano gli strumenti musicali in uso a quei tempi a grandezza reale, disposti a trofeo seguendo la simmetria e l’assenza di gravità tipica delle grottesche.
Ed infine, la ciliegina sulla torta: la Camera del Priore, un minuscolo ambiente tutto affrescato a ramages e paesaggi secondo la moda dell’epoca, e con solo una piccolissima finestrella da cui l’abate abbracciava il suo regno, mentre meditava e lavorava, in attesa dell’illuminazione divina.
Da parte mia mi auguro che questa passeggiata vi abbia ispirato, se non pensieri divini almeno sensazioni di serenità e bellezza, e vi do appuntamento per la nostra prossima meta.
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