SU E GIU’ PER IL CORSO
Se mi vorrete accompagnare, questa passeggiata ci condurrà, in due puntate, lungo tutto Corso Garibaldi, in un mix di passato di ogni epoca e di presente di ogni genere che mi sembra ben rappresenti l’anima di Milano. L’itinerario che vi propongo parte dal centro e si snoda verso la periferia, lungo quello che un tempo era la via Cumana che da Milano conduceva a Como e alla Renania. Questo era il borgo di Porta Comasina, una zona che si è trasformata nei secoli da rurale, a popolare, ad artistica, sino all’attuale zona alla moda.
Ma partiamo per la nostra esplorazione.
Al numero 2 di corso Garibaldi soffermiamoci di fronte ad una palazzina ottocentesca di nobile architettura che testimonia la storia di una grande famiglia milanese. L’edificio, che racchiude una gran bella corte centrale con porticato, comprendeva, oltre alla residenza dei padroni di casa al piano nobile, anche appartamenti per gli inquilini e botteghe artigiane al pianterreno. Oggi il piano nobile ospita la Fondazione Pini, impegnata nella promozione dell’arte e della cultura in ogni forma.
I Pini erano ingegneri (parteciparono alla costruzione della diga di Assuan) e medici (i grandi “medici dei poveri” che fondarono due storici ospedali milanesi, il Gaetano Pini e il Paolo Pini), mentre il côté artistico della famiglia proveniva dall’alta borghesia dei Fossati. In questo palazzo visse e lavorò Renzo Giovanni Radice, zio dell’ultimo proprietario, paesaggista di stile impressionista. La collezione permanente delle sue opere è visibile al primo piano della residenza tutt’ora arredata con i mobili originali, mentre a pianterreno si trova una galleria d’arte che ospita a rotazione giovani artisti. Ma val la pena di ricordare anche Adolfo Pini, ultimo discendente della dinastia e ultimo proprietario del palazzo, che può essere annoverato tra i grandi filantropi milanesi del secolo scorso. Laureato in fisica e medicina allargava i suoi interessi culturali anche all’àmbito artistico. Estroverso e vitale era un uomo brillante. Viaggiava molto, amava la vita mondana e, a metà Novecento, apriva spesso la sua casa di corso Garibaldi a feste che coinvolgevano tutta l’alta società milanese, come testimoniano i libri con le firme degli ospiti che allora usavano. Soggiornava nelle sue case di Parigi, Londra, Saint Tropez, Stresa e Miami: sempre in movimento, mai pago di inseguire eventi, concerti, mostre, godendo pienamente della sua ricchezza, ma anche prodigo di attenzioni per le persone che amava. Corteggiatissimo, non si sposerà mai. Alla sua morte nel 1986, lascia in dono al Comune di Stresa la villa di famiglia disponendo che venga utilizzata con finalità artistiche e culturali e destina il resto dei suoi beni alla costituzione di una Fondazione a suo nome per lo sviluppo dell’arte, soprattutto a sostegno dei giovani artisti. Fondazione che ha la sua sede nel palazzo di famiglia di corso Garibaldi. Val la pena di rendergli omaggio visitando il palazzo.
Ma attraversiamo la strada e, poco più avanti, al numero 17, troveremo il retro – forse più bello del fronte – del Teatro Fossati, voluto nel 1858 dall’industriale Carlo Fossati, che, a scelta degli abitanti del borgo interpellati in proposito (anche allora c’erano i referendum), venne dedicato a Giuseppe ed Anita Garibaldi. Il teatro era originariamente a cielo aperto e in caso di pioggia si stendeva un telo bianco per proteggere gli spettatori. Una volta coperto, il Fossati fu il primo teatro in Italia a sperimentare la luce elettrica e gli spettacoli diurni. Qui nel 1925, debuttò Eduardo De Filippo, poi giunse l’operetta. Recuperato da Giorgio Strehler nel 1979 e ridefinito internamente dall’architetto Marco Danuso, è oggi sede del Piccolo Teatro Studio e della scuola di drammaturgia. Nel 2013 è stato intitolato a Mariangela Melato, milanese D.O.C. Da ammirare le statue in cotto di Andrea Boni dedicate all’Eroe dei Due Mondi e ad una figura femminile variamente interpretata: l’Italia? la Libertà? Anita Garibaldi? Chissà!
Poco più avanti, al numero 27, si erge maestoso il CAMM, oggi un centro sociale, già tempio evangelico metodista. Qui, in tempi antichi, sembra sorgesse una tipica dimora signorile rinascimentale, oppure una chiesa o un convento femminile. Di originale rimane una porta in marmo che dà in un portico a colonne con archi profilati in cotto. Il piccolo giardino che lo circonda è pubblico, e ci si può fermare per una sosta.
Proseguendo con la passeggiata, riattraversiamo corso Garibaldi per visitare il luogo artisticamente e storicamente più importante della zona: la basilica di San Simpliciano. Sorta per volere di Sant’Ambrogio verso la fine del Trecento, Anno Domini e non mille e tre, fu terminata dal suo successore, San Simpliciano. E qui è ospitato il suo sepolcro, unitamente alle reliquie dei martiri Martirio, Sisinnio ed Alessandro, uccisi in Val di Non e particolarmente cari ai milanesi. Per una buona ragione. Nel 1176 infatti la chiesa divenne famosa per la battaglia di Legnano perché, come narra la leggenda, fu da qui che i tre martiri, trasformatisi in colombe, si posarono sul Carroccio preannunciando la vittoria contro il Barbarossa.
Il campanile, poco visibile, non è un granché, soprattutto perché nel 1500 fu fatto abbassare, o meglio, fu mozzato di circa 25 metri per ordine del governatore della città, don Ferrante Gonzaga. Un destino toccato a gran parte dei campanili che sorgevano nelle vicinanze del Castello perché ne ostruivano la visuale.
L’attuale facciata di San Simpliciano mantiene l’aspetto romanico, ma per ammirare l’imponenza di tutta la struttura consiglio una deviazione lungo il fianco destro per via dei Chiostri dove, nell’antico convento, ha sede la Facoltà di Teologia dalla quale si accede liberamente, quando è aperta, ai due straordinari chiostri interni: quello del ‘500, più grande e monumentale, e quello del ‘400, più piccolo e prezioso con i suoi affreschi. L’interno della chiesa, a tre navate e riportato alla disadorna muratura originale, è imponente e di grande atmosfera. Straordinario l’effetto luminoso distribuito in tutta la basilica, una soluzione architettonica che ha fatto scuola nel mondo. L’altare maggiore è un catafalco ottocentesco con due pulpiti laterali, ma è riscattato dai due organi affrescati da Aurelio Luini alla maniera del suo famoso padre.
Ma il peccato più grosso dell’altare è quello di nascondere un bel coro ligneo e soprattutto il catino dell’abside dove esplode, in una fantasmagoria di colori, l’affresco del Bergognone del 1508 che celebra L’incoronazione di Maria entro una mandorla di cherubini e di angeli musicanti, circondati da ben 77 figure tra cui un segalino Dante Alighieri. Da dietro l’altare si può scendere in una piccola cripta dove riposa San Simpliciano e le reliquie dei tre martiri/colombe di ben augurante memoria. Sulla sinistra dell’altare, un’altra discesa, ad un livello ancora inferiore inferiore, quello originale, che ospita un sacello del V secolo con reperti romanici e un Cristo molto coinvolgente. Altre opere degne di nota: il battistero con relativa cupola di angeli, l’imponente Via Crucis, un’incredibile cappella barocca (che non c’entra niente ma un gioiellino nel suo genere) dedicata a San Luigi Gonzaga e le vetrate tutte che raccontano l’epopea del Carroccio.
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